LA NATURA DEL NEOLIBERISMO

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1] Ristrutturazione e governamentalità neoliberiste

Il termine neoliberismo è utilizzato con varie e diversificate accezioni nella corposa letteratura che se ne occupa a partire soprattutto dagli anni ’90 (Mirowski e Plehwe 2009). In generale tuttavia, la svolta neoliberista nel modello capitalista si può collocare  negli anni’70 con l’avvento di teorie economiche ispirate al liberismo classico (Hayek, Friedman in particolare) e successivamente delle politiche (elaborate sulla base di tali teorie) portate avanti dai governi delle maggiori economie occidentali e dai principali organismi internazionali di quello che Williamson (1989) ha chiamato il “Washington consensus” (su tutti World Trade Organization, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale etc).

            Il processo di affermazione del neoliberismo, seppur con significative variazioni da un contesto nazionale/regionale all’altro, si articola per due fasi principali che Peck e Tickel(2002) definiscono rispettivamente di roll back e roll out. La prima fase (roll back), propria degli anni ’80, è caratterizzata dalla deregolamentazione dell’economia e dallo smantellamento dello stato sociale, che vengono giustificati a fronte della crisi fiscale dello Stato nelle società capitaliste più avanzate (in particolare dai governi Tatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti). I sistemi di welfare ispirati sul modello keynesiano e fordista vengono “messi alla sbarra”, accusati di essere i principali responsabili della crisi degli Stati occidentali ed “attaccati sul piano della [poca] competitività economica nazionale, regionale ed urbana” (McCarthy e Prudham 2004, 276. NB: la traduzione dai testi che in lingua originale di cui non vi è versione italiana è a cura dell’autore del presente articolo).

            La seconda fase (roll out) si sviluppa a partire dagli anni ’90. In questo periodo, che costituisce l’apice del nuovo modello neoliberista (Azmanova 2010), si evidenziano le dinamiche ambivalenti di questo processo di ristrutturazione del capitalismo, che se da un lato aumenta enormemente il volume di capitale circolante e di ricchezza prodotta, dall’altro polarizza al massimo le diseguaglianze (sociali e geografiche) nella distribuzione di goods e bads derivanti da tale produzione. A fronte delle sempre più evidenti conseguenze (sociali ma anche ecologiche) della deregulation e dello smantellamento del welfare portate avanti nella fase precedente, il progetto neoliberista (oltre che sulla creazione ed espansione dei mercati) si concentra maggiormente su di una dimensione penale e securitaria delle politiche pubbliche “riguardante specificatamente la regolamentazione aggressiva, il disciplinamento e il contenimento di coloro che erano stati marginalizzati e impoveriti dalle politiche neoliberiste degli anni ’80” (Peck e Tickell 2002, 389). In altre parole, dopo aver smantellato quelle funzioni e poteri dello Stato deputati a contenere e mitigare gli effetti socialmente (ed ecologicamente) più distruttivi del modello capitalista, le politiche neoliberiste (ed i loro sostenitori) fanno appello a quegli stessi poteri statali per “contenere” le conseguenze deleterie prodotte nella fase di roll back; i primis per far fronte alle reazioni e resistenze di quei settori sociali e di quei territori che dal processo di ristrutturazione neoliberista sono stati esclusi, marginalizzati, impoveriti (Wacquant 2006). In questa seconda fase si assiste inoltre ad una ristrutturazione delle forme di governo attraverso processi di:

  • privatizzazione di servizi e aziende pubbliche attraverso meccanismi basati sulla competizione di mercato (anche se poi nella pratica tale “affidamento a mercato” si è spesso tradotto in meccanismi guidati dal clientelismo piuttosto che dalla competizione “paritaria” -Harvey, 2005);
  • depotenziamento degli apparati e strutture dello Stato attraverso tagli alla spesa e riduzione del personale;
  • incremento delle partnership pubblico-privato;
  • “spostamento” sempre più frequente da forme di regolamentazione vincolanti a forme di soft law basate sull’adesione volontaria sull’auto-regolamentazione.

La svolta neoliberista sembrerebbe quindi la forma assunta dal capitalismo a fronte della crisi dei sistemi di welfare nelle società capitaliste più avanzate e per rispondere alle nuove sfide della “post-modernità” e dei processi di crescente globalizzazione.

            Vari autori tuttavia (Harvey 2005, Pellizzoni e Ylonen 2012) hanno evidenziato come il neoliberismo possa essere inteso come un progetto di cambiamento sociale volto ad una trasformazione complessiva della società (a livello globale) ed ispirato ad una specifica concezione della natura umana (Lemke 2003). Il neoliberismo quindi non è solamente l’approccio teorico di una particolare scuola di economisti (e il “pacchetto” di politiche pubbliche ad esso ispirate) finalizzato a riformare i modelli statali al fine di una maggiore liberalizzazione del mercato e privatizzazione dei settori pubblici. Il neoliberismo è prima di tutto un’ideologia; l’espressione di una specifica filosofia politica, “una nuova concezione di come la società debba essere governata e di come debbano essere definite le relazioni sociali” (Pellizzoni e Ylonen, 2012, 67).

In questo senso non si deve commettere l’errore di far coincidere capitalismo e neoliberismo, il quale rappresenta una particolare “declinazione” del modello capitalista di società. Come evidenziano McCarthy, Heynen, Prudham, e Robbins (2007, 287)  “il neoliberismo è capitalismo, anche se una particolare variante storica del capitalismo. Esso è la forma più recente del capitalismo”.

Diviene quindi essenziale chiarire quali sono gli elementi che contraddistinguono il progetto neoliberista e, soprattutto, quali sono i modelli di razionalità e di governo che ne hanno orientato la diffusione ed applicazione in tutto il mondo (Birch e Mykhnenko, 2010). Pellizzoni (2013) indica due prospettive teoriche particolarmente indicate in questo senso: quella foucaultiana della governamentalità  e quella gramsciana di egemonia . Infatti, mentre il concetto di governamentalità (o mentalità di governo) aiuta ad evidenziare le “logiche profonde” sottese alle trasformazioni che la ristrutturazione neoliberista del capitalismo ha comportato, quello di egemonia aiuta nel cogliere quegli elementi che hanno reso la diffusione delle ideologie neoliberiste così ampia, pervasiva e particolarmente resistente alle critiche (Pellizzoni e Ylonen 2013), sebbene a fronte dei suoi innumerevoli fallimenti ed effetti nefasti.


2] Mentalità neoliberale di governo: l’egemonia della governance

Il progetto neoliberista si basa sull’idea che la società è composta da soggetti (individuali) che sono portati “naturalmente” a competere tra loro. In quest’ottica il benessere umano può essere raggiunto solo “liberando le capacità e libertà imprenditoriali individuali all’interno di una cornice istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, libero mercato e libero scambio” (Harvey 2005, 2).

Nella prospettiva neoliberista il mercato si pone perciò come l’istituzione sociale centrale dal momento che «presume che esso  funga da guida appropriata –da etica– per tutte le azioni umane» (Ibid. 165, corsivo mio) in quanto «meccanismo di intelligibilità e valutazione delle azioni individuali e collettive» (Pellizzoni2013, 6) nel quale la competizione tra individui “imprenditori di sé stessi” fa emergere i “migliori”. Per fare questo bisogna però rimuovere tutti quegli elementi, tipici dei sistemi di welfare, che tendono a “livellare” le differenze tra individui, nella prospettiva di una loro “minore diseguaglianza”. Nell’ottica neoliberalista queste diseguaglianze sono invece un elemento essenziale per stimolare la competizione tra soggetti, a patto che si espanda il più possibile «la diversità delle posizioni, la “diseguale uguaglianza” delle persone» (Pellizzoni e Ylonen 2012, 66). La veementi critiche ai modelli di welfare ed all’intervento dello Stato nell’economia portate avanti dagli alfieri del neoliberismo in nome della competitività e dell’auto-realizzazione individuale esprimono precisamente questa concezione; lo Stato “bambinaia” dei sistemi di welfare deve lasciare spazio ad uno Stato “matrigna” (Azmanova 2010), il cui principale obiettivo è far sì che gli individui si facciano carico il più possibile della propria esistenza e dunque anche dei suoi eventuali successi e/o fallimenti, senza ricorrere costantemente al “paracadute” dell’assistenza pubblica. L’insicurezza e l’incertezza economica e sociale divengono in quest’ottica degli obiettivi da conseguire (Sennet 2006), piuttosto che degli effetti collaterali indesiderati dei processi di ristrutturazione neoliberista, in quanto la condizione di incertezza costituisce uno stimolo alla competitività che tali processi perseguono.

La governamentalità neoliberale si riferisce quindi a «forme  artificiose o artificialmente create di libera condotta da parte di individui imprenditoriali, competitivi e [guidati da] razionalità economica» (Burchell, 1996. 23–24) e non, come nel liberismo, ad un mercato che si forma attraverso la “naturale” inclinazione dei soggetti allo scambio. Al contrario nella concezione neoliberista il mercato non è qualcosa che si forma e si regolamenta “da sé” ma deve essere appositamente creato e gestito per creare gli specifici contesti in cui la competizione tra individui può svolgersi (Tickell e Peck 2003). Nella mentalitàdi governo del neoliberismo il ruolo principale dello Stato è perciò quello di creare e regolamentare i mercati, mentre si riduce (sebbene non scompaia) il suo ruolo di ente che governa principalmente tramite mezzi coercitivi (uso legale della forza). Nella prospettiva neoliberista infatti «si governa soprattutto assecondando e guidando in modo indiretto le spontanee degli individui. »(Pellizzoni 2013, 6, corsivo mio). La pianificazione pubblica in questo senso è non solo scarsamente efficace, ma anche poco auspicabile, dal momento che secondo l’ideologia neoliberista “non esiste alcuna concreta possibilità di prevedere e pianificare la complessità delle interazioni umane” (Ibid.) Ciò contribuisce notevolmente a far venir meno le concezioni “unitarie” del governo in favore di concezioni di governo maggiormente “diffuse”; in altre parole si passa dall’idea di un governo “monolitico” sempre più ad un concezione del governo “come rete” di diversi attori (istituzionali e non, pubblici e privati).

            La prospettiva della governance emerge in questo contesto (ed il fatto che ciò avvenga nello stesso periodo della fase di roll back neoliberista non sembra casuale); in essa si auspica il trasferimento del potere dallo stato alla società civile ed la riduzione delle forme di regolazione basate sulla legge in favore di quelle basate su meccanismi di mercato. Le trasformazioni prodotte nei sistemi capitalisti occidentali partire dagli anni ’70 vengono inoltre interpretati come cambiamenti non guidati da specifiche razionalità di governo, ma come risposte spontanee, per certi versi “naturali” a fenomeni quali la crisi dei modelli di Welfare State, alla trasformazione del modello fordista, all’accelerarsi dei processi di globalizzazione economica e sociale, alla finanziarizzazione dell’economia ed allo sviluppo delle nuove tecnologie (Pellizzoni 2012).

In questo contesto si assiste ad un notevole incremento delle pratiche partecipative da parte della cittadinanza. Questa “esplosione” di forme di democrazia partecipativa (soprattutto  a partire dagli anni 90), che in parte emerge anche come risposta alle istanze di maggiore partecipazione portate avanti delle lotte sociali degli anni ’60 e’70, origina molteplici forme di deliberative forums, ovvero  «arene strutturate dove differente categorie di persone (cittadini comuni, esperti, stakeholders, amministratori pubblici)  si incontrano per dirimere dialetticamente le questioni pubbliche»  (Ibid. 2012, 1). Questi nuovi dispositivi partecipativi vengono adottati a diversi livelli, dalle politiche europee alla pianificazione urbanistica locale, e si orientano al conseguimento di diversi obiettivi, tra cui (a) il miglioramento del public management, (b) la promozione della partecipazione democratica (anche nell’ottica di ri-abilitare i sistemi politici occidentali in crescente crisi di legittimità) e (c) la ricerca di maggiore giustizia sociale tramite il rafforzamento della coesione sociale e l’empowerment di gruppi e settori sociali marginali e/o svantaggiati (Sintomer e Allegretti 2009).

Lo sviluppo delle arene deliberative, e le pratiche di democrazia deliberativa più in generale, suscitano un notevole interesse ed entusiasmo (a livello accademico oltre che di pubblica amministrazione) soprattutto negli anni ’80-‘90.La diffusione dei deliberative forums viene interpretata come

«una risposta benigna alla crisi della democrazia rappresentativa e dell’amministrazione statale […] nel senso che essi offrono l’opportunità per una (ri)-intensificazione del coinvolgimento, e del peso, delle persone nel policymaking  in un contesto di crescente inefficienza delle istituzioni e degli approcci tradizionali di fronte a nuovi tipi di problemi e alle principali trasformazioni sociali, che nascono in primis dell’avanzamento tecnologico, dai cambiamenti ecologici, dal multiculturalismo e dalla globalizzazione economica »  (Pellizzoni 2012,2-3).

A queste iniziali speranze seguono presto analisi più critiche che iniziano ad evidenziare limiti ed incongruenze dei dispositivi deliberativi, ed a relazionare tali limiti con l’affermazione dei modelli di governance neoliberisti (Silver t al. 2010). Un tratto comune a molte di queste critiche “discendenti” della public deliberation (Pellizzoni 2012) è il riconoscimento a questi dispositivi d’una funzione centrale nella creazione del consenso e , soprattutto, nella rimozione e delegittimazione del dissenso.In altri termini, questi strumenti di partecipazione ed inclusione sembrano agire principalmente come strumenti di governo volti alla rimozione del conflitto tramite l’esclusione nei confronti di coloro che non si adeguano, le cui posizioni non sono negoziabili. La diffusione e progressiva istituzionalizzazione di forme deliberative ha perciò l’effetto di rafforzare concezioni di tipo organicistico-patologico della conflittualità sociale; Esistendo possibilità di partecipazione istituzionalizzate (anche se spesso più formali che sostanziali), chi decide di “stare al di fuori” di esse si espone allo stigma dell’irragionevolezza, dell’estremismo, dell’antipolitica.

Sebbene i processi deliberativi costituiscano una potenziale occasione per i cittadini di prendere parte al processo di policy making ridefinendone pratiche, confini e modalità di tematizzazione delle problematiche di rilevanza pubblica (Clarke 2010; Levidow 2007), essi costituiscono in primis un formidabile strumento di governo (nel senso foucaultiano del termine cfrsupra). Infatti, in una prospettiva critica “le arene deliberative […] possono essere guardate can be come modi ingegnosi di dirigere/condurre le condotte [degli individui]”(Pellizzoni e Ylonen 2012, 79, corsivo mio), dal momento che in tali processi partecipativi le modalità di partecipazione, di selezione dei partecipanti, nonché la cornice di senso (il frame)con cui una questione viene trattata, sono decisi ex-ante e gestiti “dall’alto”. In quest’ottica i forums deliverativi diventano strumenti per la costruzione “di pubblico” rivolti principalmente (se non esclusivamente) alla costruzione del consenso. Nella prospettiva della governa mentalità neoliberista, la governante “come forma di regolazione sociale e come saperi/poteri che la identificano, descrivono e promuovono” (Pellizzoni 2013, 6) esprime una razionalità di governo in cui la “partecipazione” tende a coincidere con la “concertazione”.

“e come e più che nel modello neocorporativo, chi sta fuori dal gioco non se la passa bene: il successo dello stigma Nimby sta a dimostrarlo. Anche nelle socialdemocrazie della “terza via” che fioriscono negli anni ’90 chi si mostra indisponibile alla concertazione (perché scettico rispetto alla presunta autoevidenza dei suoi punti di partenza: globalizzazione, trionfo post-ideologico del mercato, autonomia e benefici generalizzati dell’avanzamento tecnoscientifico) diviene un avversario irragionevole e fastidioso o un pericoloso nemico (Pellizzoni 2013, 5, corsivo mio).

La rimozione/pacificazione della conflittualità socio-politica è quindi uno degli strumenti essenziali alla realizzazione del progetto neoliberista, che condivide con la destra non liberale “classica” la stigmatizzazione di ogni frattura sociale e di ogni “partigianeria” (Caruso 2010). La governamentalità del progetto neoliberista concepisce l’azione di governo come:

“un insieme di performance e di output valutati secondo standard qualitativi che si vogliono asettici e impolitici. La politica di parte dei partiti viene considerata un puro ostacolo al raggiungimento di questo standard [ed è anche per questo motivo che il neoliberismo] da un punto di vista politico-ideologico, è stato ed è anche un processo di delegittimazione della parzialità”( Ibid. 14-15, corsivo mio).

Questa pretesa di non-parzialità aiuta ad evidenziare la natura egemonica del neoliberismo , in quanto molte delle trasformazioni e ristrutturazioni da esso imposte sono state giustificate sulla base di motivazioni di tipotecnico e/o scientifico (e che si presume dunque oggettive, super-partes), mentre uno sguardo più critico ne rivela i profondi presupposti politico-ideologici (inevitabilmente “di parte”). Come sottolineavano già McCarthy e Prudham (2004, 276) “l’egemonia neoliberista è resa più evidente dale modalità con cui progetti profondamente politici ed ideologici siano stati successivamente mascherati come un insieme di evidenze obiettive, tecniche, naturali”.

L’egemonia infatti non si raggiunge solo con la coercizione (l’obbligo, anche attraverso l’uso della forza, di sottomettersi ad un certo ordine) ma soprattutto attraverso il consenso, la cui creazione passa attraverso l’accettazione da parte di una panoramica il più ampia possibile di soggetti di specifiche modalità di definire/ rappresentare il mondo e la realtà, e che sono congeniali al mantenimento degli interessi dei “blocchi storici” dominanti (Gramsci 1965). In questo senso il consenso coincide, in ottica foucaltiana, con lo stato di dominazione, ovvero il governo del sé, la soggettivazione della relazione di potere E’ attorno a tale interessi che il processo egemonico cerca di costruire il consenso, ovvero di ottenere attorno ad essi la convergenza (in parte o in toto) degli interessi dei “blocchi” subalterni. La costruzione dell’egemonia in altre parole “richiede l’integrazione di significati appartenenti a classi e settori diversi in progetti discorsivi etico-politici che creano “convergenze di interessi” su cui si può basare il consenso o la coercizione[…]. L’egemonia è quindi qualcosa di più della conoscenza distorta, perchè è fondata su forme di pensiero (o sistemi di significato)”  (Pellizzoni e Ylonen 2012, 65).

In questo senso la pretesa del progetto neoliberale di presentarsi come “una necessità storica”, come un destino “naturale” della storia umana, piuttosto che come una particolare declinazione di essa, è una indice emblematico della sua aspirazione egemonica: esso si rappresenta non come un ideale, ma come una realtà (Read 2009) che corrisponde alle fondamentali inclinazioni e aspirazioni della natura umana (Lemke 2003). Questa impostazione rende il neoliberismo particolarmente “resistente” alle critiche ed alle confutazioni, anche a fronte dei suoi fallimenti ed effetti negativi, talvolta disastrosi. Ogni fallimento del mercato, ogni mancata realizzazione del destino di progresso e benessere che la “svolta” neoliberista aveva promesso, ogni conseguenza negativa riconducibile alle ristrutturazioni neoliberali (per quanto macroscopica essa sia come la presente pandemia), non costituiscono una delegittimazione del progetto neoliberale stesso. Nell’ideologia neoliberista tali fallimenti sono imperfezioni momentanee, che indicano “la distanza tra una realtà trans-storica ed i momentanei flussi, ostacoli, opposizioni ed irragionevolezze” (Pellizzoni e Ylonen 2012, 81).

In questo quadro, la pacificazione del conflitto coincide con una delegittimazione del dissenso e una rimozione delle forme di resistenza. Una delegittimazione della “irriducibilità” che opera attraverso la marginalizzazione delle posizioni e dei valori scarsamente o per nulla negoziabili, ed il coinvolgimento “selettivo” di una cittadinanza attivamente costruita come “ordinaria” e selezionata sulla base della sua “non-politicità” (Clarke 2010).che si avvalgono del ricorso alla forza in modo più “tattico (en meno sistematico) rispetto al passato, ma soprattutto tramite forme concertative  volte al consensus building (tra cui i dispositivi deliberativi).

Le tematiche socio-ambientali sono uno degli ambiti “privilegiati” per osservare i processi neoliberisti all’opera, non solo poiché in campo ambientale le politiche neolibeiste sono state particolarmente intense, ma soprattutto perché l’ambiente costituisce uno degli oggetti centrali del progetto neoliberista ed uno degli elemneti su cui si sono attivate molte delle maggiori resistenze agli effetti del progetto neoliberale: le questioni ambientali infatti, “rappresentano la più poderosa fonte di opposizione politica al neoliberismo” (Mc Carthy-Prudham 2004; 275).

3]La “neoliberalizzazione” della Natura

Le connessioni tra neoliberismo, crisi ecologica globale e nuovi modelli di governance ambientale «sono tutti profondamente se non inestricabilmente interconnessi» (Mc Carthy e Prudham 2004; 275). Infatti, dal momento che il neoliberismo esprime una specifica maniera di pensare la realtà e la natura umana, ne consegue anche una specifica modalità di concepire e regolamentare le interazioni socio-ambientali. In questo senso il neoliberismo «è anche un progetto ambientale […] ed è necessariamente tale» (Ibid., 277; corsivo mio), in quanto esso «tende non solo a generare serie conseguenze ambientali ma […] è costituito in modo significativo  dal [tentativo di] cambiare l’interazione sociale con la natura biofisica» (Ibid. 275).

L’ambiente naturale è “da sempre” un elemento centrale nei processi capitalistici di accumulazione, dal momento che il cambiamento delle forme di relazione delle comunità umane con beni e servizi ambientali è stata (a partire dagli enclousures dei commons) una delle basi dello sviluppo capitalista, sia dal punto di vista delle sue pratiche materiali che da quello dei suoi fondamenti ideologici e culturali. La ristrutturazione delle relazioni umane con la natura era rivolta, nell’ottica liberista classica, a “liberare” le risorse naturali dalla loro “improduttività/scarsa produttività”(connessa alle complesse relazioni socio-comunitarie di gestione delle risorse naturali, tipiche delle società agrarie pre-industriali ) per affidarle a dinamiche di mercato. Tale cambiamento è parte di quella “Grande Trasformazione” descritta da Polanyi (1944), attraverso cui le società e gli stati premoderni si sono evoluti in società di libero mercato, nelle quali la distribuzione e l’accesso a beni e servizi avvengono in base a prezzi (a loro volta determinati dal mercato autoregolamentato) e non più sulla base di reciprocità, tradizione e ridistribuzione. In tale processo di trasformazione il mercato capitalista produce delle merci “fittizie“ (ibid. 71ss), ossia rende merci degli elementi che non sono stati creati come tali “ come l’acqua e gli alberi, il cui valore socio-culturale, la cui funzione fisica e di cui bisogni biologici eccedono quelli che vengono registrati da transazioni di mercato su singole merci” (Castree 2008, 144 corsivo originale ).

            Il neoliberismo, tuttavia, offre ai processi ed agli attori (pubblici e privati) del capitalismo nuovi “aggiustamenti ambientali” per rispondere alla propria domanda di crescita (Harvey 2011, Castree 2008), e per fare (ulteriormente) della natura uno strumento di nuova accumulazione capitalistica (Leff 2009). A questo proposito vari contributi, soprattutto nel campo della geografia critica e degli studi neo-marxisti (Brenner e Theodore 2002; Mc Carthy e Prudham 2004; Haynen e Robbins 2005), parlano di un processo di neoliberalizzazione della natura che, al di là delle molteplici declinazioni che esso assume a seconda dei diversi contesti e scale spazio-temporali (Larner 2003), presenta alcuni “tratti” e logiche comuni (Peck e Tickell 2002) riconducibili alle caratteristiche fondamentali del neoliberismo:

  • Privatizzazione: beni e servizi ambientali, precedentemente/storicamente di proprietà comune o demaniale (piuttosto che privi di qualsiasi tipo di diritto di proprietà) vengono resi oggetto di precisi diritti di proprietà individuali;  ciò nel contesto globale odierno, fa sì che i “nuovi proprietari” di tali beni ambientali «possano potenzialmente provenire da ogni angolo del globo»(Castree 2008. 142).
  • Marketisation: beni e servizi ambientali, in precedenza unpriced, ricevono dei prezzi che sono loro assegnati da dinamiche di mercato sempre più transnazionali (globali); ciò comporta sempre più ampie “deleghe” al mercato nei settori ancora sotto il controllo pubblico.

Nel contesto odierno di crisi di efficacia/efficienza (nonché di legittimazione) delle istituzioni nazionali (Pellizzoni 2005; Della Porta 2004) tali settorisono oggetto delle stesse logiche di competitività ed efficienza tipiche del settore privato (Ong 2006: 3).

  • Deregulation: intesa come rimozione dell’azione dello Stato in vari “campi”, tra cui quello ambientale, a cui segue una re-regulation delle politiche pubbliche volta a facilitare privatizzazione e marketisation “in aspetti sempre più profondi della vita sociale e ambientale” (Ibid.). Del resto come evidenzia David Hervey (2005) il neoliberismo risponde alla necessità capitalista di crescita con la mercificazione “di qualsiasi cosa”. Nel caso delle risorse naturali, il neoliberismo risponde a tale necessità “endemica” del capitalismo (Castree 2008) con la commodification di beni e servizi prodotti gratuitamente dalla natura (Prudham 2007).
  • La costruzione ed istituzionalizzazione di dispositivi partecipativi-concertativi in cui si esprime “l’incentivo da parte dello Stato a far sì che i gruppi della socità civile (associazioni, ONG, comitati etc) forniscano servizi che lo stato assistenziale dovrebbe, o potenzialmente potrebbe, fornire ai cittadini”. (Castree 2008, 142)

In altre parole la cittadinanza viene mobilitata per sostituire lo Stato nello svolgimento di svariate funzioni, sia in quanto lo Stato non è in grado (a seguito dello smantellamento dei suoi apparati nella fase di roll back) di espletarle, sia in quanto “i gruppi della socierà civile sono visti come capaci di offrire meccanismi compensativi che possono risolvere ogni problema dei cittadini” (Ibid. 143) in seguito alle trasformazioni precedentemente descritte.

Il neoliberismo dunque condivide con il liberismo classico l’obiettivo di modificare le relazioni sociali con il mondo biofisico al fine di “portare sul mercato” beni e risorse ambientali; tuttavia neoliberismo e liberismo sono caratterizzati da concezioni ontologiche della natura profondamente diverse. Infatti se nel liberismo il mondo biofisico era considerato come un ostacolo invalicabile per la crescita economica (di cui si dovevano dunque stabilire i limiti), nella concezione neoliberista tale limite può essere “esteso” attraverso la capacità dell’azione umana di modificare il proprio ambiente. Questa capacità si è accresciuta enormemente con lo sviluppo delle nuove tecnologie (in particolare di quelle bio-genetiche), grazie alle quali “tutto può essere rimodulato, mercificato e fatto oggetto di “proprietà” (Pellizzoni e Ylonen 2012, 69). In questa prospettiva l’imprevedibilità e l’incertezza che caratterizzano tutti sistemi complessi (come lo sono gli ecosistemi) viene approcciata in una prospettiva che considera l’incertezza/indeterminatezza come una possibilità piuttosto che come un limite: “Si potrebbe dire che l’indeterminatezza non significa una non-determinabilità vincolante , ma consente piuttosto la non-determinazione […] Contingenza significa mancanza di limiti piuttosto che mancanza di ordine. Meglio: il disordine, come una positiva, permissiva condizione dei sistemi, può essere gestito ritagliando spazi provvisori per manovre mirateThe more unstable the world, the more manageable” (Pellizzoni 2011, 797). In questo senso la pandemia di Covid 19 ci sta mostrando come questa instabilità possa essere fonte di immense accumulazioni (si pensi anche solo alle fortune accumulate delle aziende operandi in certi servizi proprio grazie alla pandemia) o di avvio di nuovi mercati (vaccini) e filiere produttive (dispositivi di protezione).

Nel neoliberismo la complessità del mondo biofisico e l’incertezza nell’interazione con esso, si convertono in possibilità per estendere i limiti ambientali all’accumulazione capitalista. In altri termini  non solo “la questione dei limiti della crescita viene ribaltata come crescita dei limiti”(Ibid. 796) ma l’incorporazione e lo “spostamento più in là” del limite stesso, divengono elementi essenziali per la capacità dei processi di accumulazione capitalista di riprodurre sé stessi.  E a differenza che nel caso di beni e servizi ambientali oggetto di commodification “classica” (come le risorse idriche o boschive), con l’avvento delle biotecnologie viene pensata e prodotta una natura concepita “sin dal principio” come merce (si pensi ad esempio alle sementi geneticamente modificate). Se le “merci fittizie” sono risorse naturali  che vengono trattate “come se fossero merci”, nel caso degli OGM “non c’è nulla di fittizio. […] Essi sono merci, la loro “realtà” non è nient’altro che questa” (Pellizzoni e Ylonen 2012, 74). 

Questa aumentata capacità di modificare beni e servizi ambientali in funzione di un loro più congeniale asservimento al processo di accumulazione (cioè ad un loro maggiore sfruttamento ) è uno dei modi «in cui le neoliberalizzazioni accelerano la produzione di rischi ambientali» (Mc Carthy-Prudham 2004, 280).

4] Conclusione: perché è la dimensione locale-territoriale è centrale nei conflitti ambientali odierni.

Le dinamiche ed i processi neoliberisti appena descritti agiscono ad un molteplice numero di “scale” spaziali-geografiche ed attraverso diverse relazioni “scalari” di potere. Nel quadro dei processi di globalizzazione contemporanea tale “multi-scalarità” mette in crisi le forme di spazialità politica dello Stato-nazione (Caruso 2010), ed erode le sue “classiche” funzioni e prerogative (Jessop, 1994), in quanto ne indebolisce e delegittima la pretesa di monopolio decisionale e controllo territoriale.

La politics of scaling neoliberale porta quindi ad una ristrutturazione dei livelli di governo che da un lato sposta su un piano extra-nazionale i “centri decisionali” politico-economici (Mc Carthy e Prudham 2004, 276), dall’altro pone i contesti locali sempre più al centro di flussi e processi globali .

In questo quadro i contesti locali-territoriali (urbani in particolare) vengono messi in una competizione transnazionale costante, che in gran parte si gioca sulla propria capacità di far convergere sul proprio territorio i flussi globali di capitale. E’ nell’ottica di aumentare questa capacità di “attrarre” gli investimenti che i governi locali (comunali, metropolitani, regionali, etc), orientano le proprie politiche e investono gran parte delle proprie risorse. I flussi e gli stock di capitale infatti, per quanto in costante peregrinazione planetaria alla ricerca di nuove forme di accumulazione (Harvey 2005) e il più possibile slegati da ogni legame con contesti spaziali specifici, necessitano di un luogo dove «piantare le tende per un po’» (Bauman 2005, 52).

In questo senso si evidenzia la duplice valenza della “scalarità” in relazione alla governa mentalità  neoliberista, in quanto essa si riferisce sia alla dislocazione in un determinato contesto degli effetti negativi di azioni interazioni intraprese in un altro luogo (sulla base di una relazione di potere vantaggiosa per quest’ultimo), sia alla distanza tra i livelli a cui un azione viene intrapresa ed i livelli a cui gli effetti di essa si concretizzano (e devono essere fronteggiati).

 I contesti locali sono perciò centrali nella politiche “di scala” dei processi neoliberisti , e in particolare in quelli di neoliberalization of nature, in quanto il territorio, con i suoi beni e servizi ambientali, fornisce ai flussi di capitale un “ancoraggio momentaneo”, al loro « necessario, per quanto transitorio, radicamento nei luoghi, nella fisicità degli spazi urbani e rurali, della terra e delle sue risorse, come presupposto e oggetto dei nuovi processi di accumulazione» (Pellizzoni 2013, 6-7, corsivo mio ). In quest’ottica i conflitti ambientali locali “sono locali non nel senso che hanno come contenitore fisico un determinato luogo, ma nel senso che hanno come presupposto e oggetto quel luogo, nelle sue caratterizzazioni, delimitazioni e connessioni con ciò che da esso eccede e su esso incide” (Pellizzoni 2013,1)

Nei processi di globalizzazione neoliberista il rapporto con il locale/territorio viene tuttavia ridefinito in maniera ambigua; la globalizzazione infatti «produce sia un effetto di de-territorializzazione, di despazializzazione dell’esperienza e del rapporto tra territorio e politiche economiche, che un effetto di ri-territorializzazione, e cioè di ridefinizione politica del territorio» (Ibid. 22, corsivo mio). É nel quadro di questa ambiguità, in cui viene ridefinito profondamente il legame costitutivo tra contesti spaziali-territoriali e forme del politico (Schmitt 1991), e si colloca la natura glocale (Bauman 2005) di molti attori protagonisti dei fenomeni odierni di mobilitazione socio politica. Ovvero il contemporaneo radicamento di questi attori nel proprio contesto locale-territoriale da un lato, e la consapevolezza della globalità dei processi dall’altro (sul modello del motto, fatto proprio da molti movimenti sociali ed ONG, del “pensare globalmente, agire localmente”).

 In relazione ai processi di conflitto ambientale ciò è particolarmente evidente, in quanto se da un lato le problematiche ambientali sono glocali “per definizione”, è tuttavia nella dimensione locale-territoriale che i soggetti sono alle prese con «la concreta esperienza sensioriale» (Schon 1979) delle conseguenze negative dei processi (multisclari e glocali) di neoliberalizzazione della natura, ed è quindi nel e per il contesto locale-territoriale che si attivano resistenze alle relazioni di potere che determinano condizioni socio-ambientali indesiderate. In questa prospettiva si spiega la relazione tra l’intensificazione dei processi di globalizzazione neoliberista, l’accrescersi dei fenomeni della conflittualità ambientale locale, e la crescente rilevanza del “territorio” «come uno tra i luoghi privilegiati dell’azione collettiva contemporanea» (Caruso 2010, 21)

Nel contesto contemporaneo inoltre, la dimensione locale tende sempre più a sovrapporsi con quella urbana e periurbana, nella quale peraltro risiede una percentuale sempre maggiore della popolazione umana. La questione si pone quindi anche in termini di Urban Political Ecology (Swyngedow 2012), ed è in questo senso che possiamo leggere la crescita di fenomeni di resistenza e alternatività alle forme di “sfruttamento della vita in ogni sua forma” che caratterizzano l’ecologia mondo neoliberale (Moore 2017). La resistenza sopravvivente (Lonati 2020) alle pratiche di sfruttamento della neoliberalizzazione della natura, che è necessariamente contestuale e radicata in un “locale”, è perciò il primo passo per una più ampio processo di superamento del modello neoliberista di uso del pianeta.

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Sociologo dell’ambiente, dottore di ricerca in pianificazione e politiche del territorio. Ricercatore indipendente, da oltre 10 anni studia e supporta conflitti ambientali e movimenti sociali ecologisti, in particolare in Italia e in America Latina.
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