Liberare la vita: uno sguardo al Rojava

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In questi mesi di pandemia, se non anche prima, alla ricerca di nuovi orizzonti e alternative per arginare e ripensare la crisi, lo sguardo è andato spesso verso la Siria del Nord-Est, quel territorio del Kurdistan noto come Rojava.

L’esperienza del Rojava non è nuova, ma possiamo identificare la sua origine come quella che ora si chiama Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est (AANES) tra il 2012 e il 2014, durante la guerra civile siriana. Tuttavia, le idee e i movimenti che la innervano sono in essere fin dagli anni Settanta, con la lotta e la repressione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).

Tra le figure più note di questa rivoluzione, che si sviluppa a partire dal marxismo-leninismo per diventare poi una forma nuova e alternativa col nome di «nuovo paradigma» o confederalismo democratico, c’è senza dubbio Abdullah Öcalan, leader del PKK. Öcalan è incarcerato in isolamento dal 1999, ma resta un teorico di grande importanza per tutto ciò che l’esperienza democratica è ed è stata. Il suo pensiero, arrivato all’esterno del carcere attraverso le sue memorie difensive e vari scritti, prende spunto da altri teorici e attivisti di grande originalità, tra cui – fra i più noti ed evidenti – Murray Bookchin, Carolyn Merchant, Rosa Luxemburg, Silvia Federici. È inoltre necessario ricordare Sakine Cansiz (Sara) per l’importanza che ha dato alla liberazione delle donne e al superamento del concetto di famiglia patriarcale e dei ruoli di genere. Uccisa in un attentato a Parigi nel 2013, militante di lunga data nel PKK, è tra le fondatrici del Movimento di liberazione delle donne del Kurdistan e delle Unità di difesa delle donne (Yekîneyên Parastina Jin – YPJ). A lungo incarcerata in Turchia, è conosciuta ovunque per la sua strenua resistenza alla tortura e i lunghi scioperi della fame.

Attualmente nella pratica poi la lotta viene portata avanti dalle Forze Siriane Democratiche (Hêzên Sûriya Demokratîk – HSD), dalle Unità di difesa e da tutti i popoli riuniti nelle assemblee a ogni livello, che rendono la liberazione sempre un processo in divenire.

Il confederalismo democratico

Il «nuovo paradigma» sviluppato in questo contesto è un nuovo modo di pensare, osservare, analizzare, concepire. Si tratta di dare priorità al collettivo anziché all’individuale, ridefinendo l’idea di libertà proprio basandosi su questo concetto. I tre pilastri su cui si fonda sono la democrazia diretta, la liberazione delle donne e l’ecologia, ma possiamo parlare anche di laicità e di convivenza tra tutti i popoli che abitano quel territorio. Sebbene si parli spesso di “rivoluzione curda”, oltre al popolo curdo sono presenti altri popoli storicamente oppressi in quelle zone, come yezidi e armeni, ma anche siriaci e arabi.

Il territorio tradizionalmente rivendicato come Kurdistan si divide tra i quattro Stati-nazione di Siria (Rojava, a ovest), Turchia (Bakur, a nord), Iran (Rojhilat, a est) e Iraq (Başur, a sud), ma l’obiettivo della rivoluzione non è (più) fondare uno Stato-nazione curdo, bensì permettere ai vari popoli di auto-organizzarsi e convivere in quei territori. Ora l’indipendenza dei popoli viene negata in particolare dalla Turchia, tramite azioni di genocidio e assimilazione forzata, che negano l’identità culturale e l’autonomia e perpetuano uno stato di guerra, con la connivenza degli Stati occidentali e delle organizzazioni internazionali.

C’è da dire poi che questo “modello di democrazia” non ha intenzione di imporsi altrove in modo standardizzato, perché riconosce la necessità di partire dalle caratteristiche particolari di ogni territorio e di ogni popolo che lo abita, per costituire la migliore struttura democratica possibile per quelle date condizioni. Questa è anche la consapevolezza che dovremmo avere noi quando guardiamo verso il Rojava in cerca di esempi per il nostro Occidente in crisi.

Prendendo spunto dalla permacultura, si tratta in fondo di «usare e valorizzare i margini e i bordi», ma anche di «usare e valorizzare la diversità». Un sistema veramente sostenibile è in grado di assorbire e lavorare col cambiamento, mantenendo i propri valori fondamentali mentre aggiusta i metodi, poiché la rivoluzione è un processo in divenire che richiede di porsi domande.

La particolarità di questo paradigma comunque consiste nel riconoscere i tre pilastri sopra citati e il loro perseguimento come inscindibile e contestuale. Dato che si basa sulla libertà delle donne e della natura, fonti primarie di vita, il fine del processo rivoluzionario può essere definito come quello di «liberare la vita».

Nella tradizione rivoluzionaria di stampo marxista la natura è stata ritenuta un’esternalità proprio come il lavoro riproduttivo e di cura svolto dalle donne. Le donne e la natura sono ritenute non soggetto ma oggetto, sia nella divisione del lavoro che nella lotta di classe. L’uomo marxista è fortemente androcentrico e antropocentrico e si aliena dalla natura, che gli offre mezzi di sostentamento. Questo perché anche nella concezione socialista resta una forte convinzione nella razionalità umana e il modello è lineare e non circolare, dove ciò che si prende andrebbe restituito in un processo di cura reciproca. Una delle problematiche rilevate nei passati tentativi di mettere in pratica il socialismo è infatti il mancato superamento della logica del capitalismo liberista, mantenendo separate le sfere della produzione e del consumo.

La democrazia diretta

Un’altra importante particolarità da sottolineare è che il confederalismo democratico si prefigge il superamento della struttura statale, delineandosi infatti come una «democrazia senza Stato». Riprendendo la trattazione sul comunalismo/municipalismo libertario di Bookchin, fin dal 2012 in Rojava sono andate sviluppandosi le comuni, assemblee popolari per la democrazia diretta. Alla base si pone l’idea che la politica sia qualcosa che appartiene al popolo, che rivendica il controllo sulla vita e sulle comunità. Con il processo di rivoluzione democratica si attua un cambiamento radicale della forma statale e insieme a essa anche dei rapporti sociali ed economici, rifacendosi alla “prospettiva di sussistenza”, già propria della trattazione ecosocialista ed ecofemminista.

Le istituzioni “dal basso” in ogni caso non vengono mai imposte alla popolazione dalle Forze Siriane Democratiche, ma sono frutto di una libera scelta comune, in seguito a proposte e alla dimostrazione dei benefici che hanno apportato in altre zone. La diffusione è partita dalle aree a maggioranza curda, ma ora si trovano anche in municipalità con una forte componente araba.

L’AANES si occupa poi di promuovere l’educazione a tutti i livelli, nelle scuole e nelle accademie, ponendo particolare attenzione alla formazione di giovani e donne, tradizionalmente escluse dall’istruzione.

Le comuni formano l’unità di base di questo modello democratico e sono rappresentate a un livello più alto nel consiglio di quartiere o villaggio, distrettuale e nazionale. Accanto alle istituzioni del confederalismo, cioè le assemblee popolari delle comuni coi loro rappresentanti, permangono anche delle istituzioni semi-statali, come i consigli esecutivi e legislativi, per potersi interfacciare con le altre istituzioni internazionali. Tuttavia, lo Stato amministra soltanto, mentre la democrazia popolare governa. Inoltre, tutte le istituzioni del confederalismo democratico attualmente esistenti hanno come rappresentanti un uomo e una donna e c’è rappresentanza sia religiosa che etnica. Soprattutto nelle regioni del Kurdistan settentrionale (parte della Turchia) questo tipo di rappresentanza è fortemente osteggiata e ha portato all’incarcerazione di vari co-sindaci e alla loro sostituzione con amministratori di fiducia del regime di Erdoğan.

Va inoltre ricordato che nelle zone sotto il controllo dell’AANES non esistono forze militari e di polizia controllate dallo Stato. In Rojava la combinazione di Forze di Sicurezza Interna (Asayîş)e Forze di Difesa Civile (Hêzên Parastina Civakî – HPC) fornisce sicurezza e incolumità ai territori. Mentre le prime si occupano di proteggere le città, le seconde sono formate per la sicurezza di base e proteggono le comunità, i loro stessi quartieri e vicini di casa. Si tratta di popolo che protegge il popolo e la cui funzione è esplicitamente la protezione dall’esterno, in particolare dagli attacchi terroristici, senza sete di potere e gerarchie. Chiunque, ovviamente anche donne e persone anziane, è incoraggiato a partecipare attraverso un sistema di turnazione. Anche le controversie vengono risolte il più possibile attraverso la mediazione e il consenso, ricorrendo ai tribunali solo in casi estremi.

Per tutelare i diritti della popolazione e tracciare le basi del cambiamento, fin dai primi anni della rivoluzione è stata pubblicata la Carta del contratto sociale del Rojava, quella che chiameremmo una “costituzione”. Inizialmente condivisa tra i cantoni di Afrîn, Cîzire (Jazira) e Kobanê, ha poi raggiunto anche i territori liberati dall’ISIS (Daesh) nel corso degli anni, fino a comprendere sette regioni amministrative con una superficie di circa 50mila km². Ciò che la differenzia da una costituzione è che prevede l’adesione su base volontaria, elemento cardine del confederalismo democratico. L’obiettivo infatti non è imporre una legge fondamentale calata dall’alto, discussa solo nelle aule del Parlamento, ma dare una base che sia realmente comune, condivisa, discussa e approvata all’interno delle assemblee popolari.

Con l’intento di «perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli». L’obiettivo di questa nuova società è essere e rimanere libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal maschilismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, con la protezione di convivenza e giustizia sociale.

Prima ancora di questa Carta inoltre era stato scritto il Manifesto della libertà delle donne o Carta delle donne, discussa e approvata solo dalle assemblee femminili, per dare loro la possibilità di autodeterminarsi in libertà.

La liberazione delle donne

L’oppressione del genere femminile viene definita da Öcalan come «la prima colonia dell’uomo» e per il superamento di un sistema gerarchico la sua liberazione deve essere il primo passo. Una società può essere democratica soltanto se le donne partecipano attivamente alla sua formazione e si organizzano in tutte le aree della vita.

Le donne perciò hanno assemblee e istituzioni che godono di una particolare autonomia, riunite nel Kongra Star, la Confederazione delle organizzazioni di donne. Poiché da sempre oppresse e sottomesse, si ritiene necessario che si educhino e auto-organizzino in contesti separati, in cui non possa esserci nessuna infiltrazione del patriarcato.

Il pensiero delle donne del Kurdistan è inoltre più recentemente stato articolato nella Jineolojî, la “scienza-donna”, una scienza sociale che, distanziandosi parzialmente dalla tradizione del femminismo occidentale, si pone l’obiettivo di essere olistica e radicale, fino a pervadere tutte le strutture della società. Ciò che si auspica non è tanto la parità di genere all’interno delle strutture del capitalismo patriarcale, ma una rivoluzione culturale del significato stesso di femminilità e mascolinità, come del sistema politico ed economico.

La battaglia delle donne del Rojava dunque è volta a liberare tutta la società, non solo le donne. In essa infatti viene riconosciuta la necessità di rendere anche il genere maschile partecipe nella cura, nel lavoro riproduttivo e nella divisione delle responsabilità concernenti la vita in comune. Esistono perciò delle accademie in cui gli uomini possono decostruire i loro privilegi e le loro strutture mentali basate sull’autoritarismo e diffuse dalla mentalità patriarcale dominante. Si insegna loro la storia e la politica da un punto di vista di genere e avviene il «divorzio completo» dalla maschilità tossica.

Lo sviluppo della Jineolojî nasce dall’assunto che nel Neolitico in Mesopotamia esistessero società matricentriche, caratterizzate da funzioni sociali basate su competenza e collaborazione. Erano società naturali, basate su relazioni etiche, sul soddisfacimento dei bisogni primari e in cui le donne occupavano il centro dell’economia, curando l’educazione di tutte e tutti in quanto origine della vita. La forza degli uomini, che si sono sviluppati come cacciatori e come guerrieri, è cresciuta spostando l’importanza dall’autoproduzione e dalla creatività alla distruzione e all’asservimento. Per questo le donne sono «la prima colonia», conquistate dagli uomini della loro stessa famiglia, percepiti come «proprietari del potere di un piccolo regno» e la famiglia diventa a sua volta lo strumento più importante per legittimare i monopoli.

Da questa seconda concezione sociale si sono sviluppate poi le forme di Stato e di economia, fino ad arrivare al capitalismo patriarcale e globalizzato dei nostri giorni, che rappresenta il maschio dominante nella sua forma più istituzionalizzata. Per arrivare a questo punto è stato necessario demolire le società agricole e i villaggi, perché il loro carattere comunitario e democratico non permetteva al capitalismo di ottenere il massimo profitto. Le economie tradizionalmente gestite da donne, tuttavia, generando solo in base ai bisogni fondamentali, non conoscerebbero depressioni e non genererebbero inquinamento ambientale.

La Jineolojî dimostra come tutto il sistema si sia sviluppato basandosi sulle scienze sociali e le scienze naturali che prendono a modello gli uomini, perché pensate dagli uomini. Si pone inoltre l’obiettivo di riscrivere tutti gli ambiti della conoscenza (in particolare prende in considerazione etica, economia, ecologia, salute, politica, demografia, storia, educazione, estetica) dal punto di vista delle donne. Il metodo che vuole utilizzare comunque non è ancora una volta quello dicotomico, che separa e dà giudizi di valore, ma un metodo dialettico più fluido. Essa riconosce in tutti gli esseri umani un’intelligenza emotiva, a lungo oppressa dall’intelligenza analitica, e si propone di darle nuova vita. Nonostante si rifaccia alle società matricentriche del Neolitico, non si propone una restaurazione delle strutture primitive, ma una vivificazione critica di quelle società e delle loro eredità rimosse, seguendo una linea della resistenza che è sempre rimasta viva in alcune comunità e tra alcuni popoli del Sud del mondo.

Questo modello si basa sulla continua formazione/autoformazione (perwerde) e su una critica/autocritica (takmil) operata nei gruppi assembleari, dove la critica è data con amore e rispetto per aiutare a migliorare e a progredire in modo costruttivo e non distruttivo. Ci sono inoltre cinque principi che sono strumenti di liberazione. Essi sono: la welatparezi, traducibile come «difesa della propria terra», nel senso di un riconoscimento del legame esistente tra donna e natura; la volontà libera o autodeterminazione, che è necessaria per liberarsi da secoli di oppressione; l’organizzazione, che è prima di tutto un’auto-organizzazione; la lotta, perché è necessaria una resistenza politica e culturale al modello dominante; l’etica legata all’estetica, principio quasi inconcepibile nella società occidentale, in cui la bellezza esteriore è invece esasperata e difficilmente legata a una rettitudine morale interiore.

L’ecologia sociale

Con la convinzione che i problemi ecologici abbiano origine dai problemi sociali, l’obiettivo è quello di costituire una società non gerarchica anche dal punto di vista ecologico, creando nuovi e diversi legami col non-umano, riconoscendo che l’umanità non si pone al di fuori della natura, ma anzi è parte di essa. Il fine ultimo è di andare verso una nuova sintesi che contenga il meglio del mondo naturale e di quello sociale. La nuova società rifiuta la centralità dell’elemento economico, perché al centro pone la partecipazione attiva alla vita sociale e politica.

Molto importante è la distinzione che operano tra “autorità” e “dominio”. Il dominio è quello che viene imposto, che consiste nell’utilizzare le proprie conoscenze per esonerarsi dal lavoro. L’autorità è invece una competenza maggiore dovuta a conoscenze più utili e più avanzate, che però vengono messe in condivisione. In questo secondo contesto, sempre volto alla discussione e al dibattito, alla cooperazione e alla reciprocità, si punta all’istituzione di una «modernità democratica».

Öcalan riconosce la promozione e l’organizzazione della coscienza ambientale come una delle più importanti attività della democratizzazione. Il suo assunto è che una politica che promette salvezza dalla crisi possa portare a un sistema che sia veramente “sociale” solo se ecologico, mentre nel paradigma statalista e patriarcale i problemi ecologici sono stati ignorati e rimandati troppo a lungo.

Il modello di economia portato avanti in Rojava è perciò un modello cooperativo, volto a promuovere l’autosufficienza e l’interdipendenza delle comunità, con la condivisione di materiali e di responsabilità, utilizzando energie rinnovabili, recuperando materie prime e sviluppando progetti di agricoltura biologica e città funzionali per chi ci abita e non per chi ci specula, con servizi di base accessibili e spazi verdi.

Molto significativo è l’esempio di Jinwar, un villaggio delle donne e per le donne, in cui si sviluppano progetti eco-sostenibili di liberazione. Aperto nel corso del 2018 dopo due anni di lavori, l’obiettivo del villaggio è quello di sviluppare e rafforzare una personalità libera nelle donne e nei bambini: diventare una parte attiva della vita comune, supportarsi, credere nella propria forza e conoscenza, crescere, sviluppare capacità di risolvere i conflitti e i problemi pratici di ogni giorno. Il villaggio è basato sull’idea di autogoverno, che significa che tutte le donne si prendono responsabilità le une per le altre e per l’intero villaggio. Nel villaggio si coltiva un orto per l’auto-sussistenza, si allevano pecore da cui si ricavano latte e derivati, è presente anche un forno per la panificazione e ci si dedica all’artigianato, alla costruzione di nuovi edifici e alle migliorie di quelli già esistenti, nonché all’auto-formazione e alla medicina naturale nel nuovo centro per la salute di Şifa Jin, aperto nel marzo 2020. Nel villaggio sono inoltre presenti pannelli solari per dare energia e acqua calda alle abitazioni, alla cucina comune e alla scuola.

Tutto questo in contrasto ai progetti che minacciano la biodiversità e la fertilità del territorio. La zona del Rojava, per via delle sue ricche aree coltivate, è sempre stata considerata il “granaio della Siria”. Inoltre, lo sfruttamento del territorio del Kurdistan settentrionale da parte della Turchia, che coltiva a monoculture per l’esportazione in Occidente e costruisce dighe sul Tigri e sull’Eufrate, allagando intere città mentre provoca la siccità in altre, continua a essere evidente.
La Turchia da sempre progetta e investe in infrastrutture senza consultare le popolazioni locali, con approccio autoritario volto al suo profitto di Stato colonizzatore. Un caso evidente è stato quello della diga di Ilisu sul Tigri, vicino al confine con l’Iraq, da lungo tempo in cantiere e giunta a termine nel 2019. Il progetto prevedeva l’allagamento di parte della valle, tra cui l’antica città di Hasankeyf, luogo tra l’altro di interesse archeologico, ora sommerso. Sempre in tema idrico si è assistito in questi anni sia al definitivo prosciugamento del fiume Xabûr (Khabur), che insieme a Tigri ed Eufrate ha reso abitabile fin dal Neolitico la zona della Mesopotamia (“mezzaluna fertile”), sia alla sistematica chiusura, sempre da parte della Turchia, delle condutture d’acqua che dovrebbero arrivare in Rojava. Ciò avviene in particolare nella zona di Heseke (Al-Hasakah): l’acqua dovrebbe arrivare dalla stazione di Allouk, vicino a Serekaniye (Ras al-Ayn), ma i rifornimenti sono stati bloccati a più riprese, lasciando circa 800mila persone senz’acqua corrente e potabile. Questo è ovviamente un problema, considerando anche che nella stagione più calda le temperature arrivano fino a 50°C.

L’innalzamento delle temperature e la progressiva diminuzione delle precipitazioni, dovute al cambiamento climatico come conseguenza dell’aumento dell’inquinamento, si uniscono alle manovre turche di genocidio culturale, che punta a far allontanare le popolazioni residenti in quella zona e a farle rivoltare contro l’AANES, che essendo anche sotto embargo non ha la possibilità di provvedere altrimenti ai suoi rifornimenti idrici e alimentari.

In tutte le zone del Kurdistan è inoltre ancora forte lo sviluppo di industrie estrattive (minerarie, di petrolio e gas), su spinta degli Stati-nazione esistenti, con l’appoggio in particolare di USA e Russia.

Da non dimenticare poi il massiccio taglio di alberi e gli incendi appiccati dalle forze militari turche nei campi e in diverse zone boschive montuose, soprattutto nelle province di Şirnex (Şirnak), Wanê (Van) e Çolemêrg (Hakkari), note per essere nascondiglio della guerriglia rivoluzionaria. Questo ha portato all’ulteriore distruzione dell’ecosistema e alla scomparsa di diverse specie animali e vegetali.

Il pilastro dell’ecologia può essere comunque preso in considerazione in vari modi, non soltanto nelle aree rurali, dove si trovano progetti di permacultura, agricoltura biologica e agrosilvicultura, nonché riforestazione, ma anche in contesti urbani. Un esempio importante la città di Qamişlo, la più popolata nell’area della Siria del Nord-Est, dove è stato messo in funzione il trasporto pubblico. Il progetto si chiama Basěn Gel («autobus del popolo») e nasce dalla necessità di rendere la città più sostenibile e accessibile, laddove in gran parte il trasporto si affidava a mezzi motorizzati individuali e costose compagnie private di taxi e minibus. Le corse in autobus sono gratuite per minori e persone anziane, mentre il prezzo per il resto della popolazione è assai contenuto, nonostante l’alta inflazione della lira siriana. I percorsi sono pensati per collegare il centro città – in particolare il mercato – a tutte le zone residenziali di periferia e il servizio è stato molto ben accolto dalla popolazione. I prossimi sviluppi porteranno il trasporto pubblico anche a Heseke e Derik, nonché a Raqqa.

La gestione della pandemia

Date le scarse condizioni igienico-sanitarie causate dalla densità di popolazione nelle aree urbane, dai tagli al rifornimento idrico, dalla crisi economica e dall’embargo in atto, è facile comprendere come la pandemia da Covid-19 non sia un’esperienza di facile gestione. Bisogna considerare in aggiunta il fatto che questi territori siano da poco usciti da una guerra contro l’ISIS, ma siano anche nel mezzo dell’occupazione turca (iniziata nell’ottobre 2019 in Rojava e proseguita a giugno 2020 in Başur) e che tra campi profughi e campi di detenzione ci siano varie situazioni a rischio.

I territori sotto il controllo dell’AANES sono entrati in quarantena preventiva fin dalla seconda metà di marzo, chiudendo scuole, mercati e altri luoghi pubblici, mentre si occupavano di produrre e distribuire dispositivi di protezione individuale e impartire istruzioni di base tra la popolazione per evitare la diffusione del contagio. Far seguire le procedure di distanziamento e confinamento a persone altamente abituate alla socialità e alla vita in comune non è stato facile, ma del resto le apparecchiature mediche non sarebbero state sufficienti per uno scoppio pandemico come quello che avvenuto in Italia. La popolazione in ogni caso è già abituata a prendersi responsabilità, a curarsi della comunità e a vivere in ristrettezze. Comunque, l’accesso al processo decisionale da parte del popolo attraverso le comuni e i consigli ha salvato molte vite. L’alloggio, il cibo, l’assistenza sanitaria, l’educazione e il lavoro non sono lasciati alla mercé del mercato o dello Stato. Reti familiari, locali e regionali di mutuo aiuto e solidarietà si assicurano che nessuno resti senza casa o a morire: questo sempre, ma in particolare durante la pandemia. Fin da marzo un Comitato centrale per la gestione della crisi ha riunito rappresentanti dalle aree dell’educazione, della sicurezza, della salute e del governo locale, per arrivare a soluzioni condivise. Il Comitato centrale prende decisioni soltanto in risposta ai suggerimenti e ai dibattiti originati all’interno dei comitati regionali e locali, dopo aver sentito il parere di esperti nel campo della sanità. Le comuni e i consigli hanno interrotto le loro regolari assemblee in presenza, trasformandole in incontri da remoto, che hanno caratterizzato anche l’ambito dell’educazione. Per le zone rurali sprovviste di strumentazione tecnologica e connessione a internet, si è provveduto a consegnare materiale cartaceo previa sanificazione. Comitati di solidarietà e mutuo aiuto hanno anche distribuito alimenti e carburanti secondo le necessità dei quartieri, mentre cooperative, gestite soprattutto da donne, si occupavano di cucire mascherine e produrre disinfettanti. In ogni quartiere e villaggio si è provveduto a una campagna di disinfezione per pulire e sterilizzare gli spazi pubblici.

Fin dalla metà di giugno il virus ha iniziato lo stesso a diffondersi, importato principalmente dall’Iraq, dove i casi erano già noti in numero elevato, giungendo a colpire oltre novecento persone entro la metà di settembre e causando circa cinquanta decessi. La scarsità di tamponi e di respiratori non rende facile il controllo e la cura dei casi riscontrati, a causa anche della mancanza di collaborazione da parte dell’OMS, che invia i materiali necessari soltanto alla parte di Siria controllata dal regime di Assad. A fronte di una popolazione di oltre cinque milioni di persone, i posti letto ospedalieri, e in particolare quelli in terapia intensiva, scarseggiano. Grandi sforzi sono stati fatti con la creazione di un nuovo ospedale a Heseke, appositamente per il Covid-19, e lo sviluppo di nuovi macchinari grazie a collaborazioni internazionali e all’impegno della Mezzaluna Rossa Kurdistan, una delle poche organizzazioni umanitarie presenti sul territorio.

L’obiettivo è ovunque quello di dare priorità alla salute pubblica anziché all’economia, nonostante la crisi in cui versano da anni e tutte le altre difficoltà già menzionate. La capacità di mantenersi aderenti ai propri valori anche nei momenti più duri e preferire il bene comune al profitto privato è una delle grandi forze di questo processo rivoluzionario, da cui abbiamo solo da imparare. Serkeftin!

Ringraziamenti

Per le informazioni riguardanti la regione e i suoi sviluppi, si ringraziano la redazione del Rojava Information Center, il gruppo traduzioni di Rete Jin e Rete Kurdistan e l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia.

Parlando di Siria del Nord-Est non posso non menzionare la vicenda di Maria Edgarda Marcucci, Eddi per le amiche, che nel 2017 si è recata in Rojava per combattere l’ISIS tra le fila delle YPJ. Al suo ritorno in Italia è stata messa sotto processo dalla procura di Torino (insieme ad altri quattro ex-combattenti internazionalisti torinesi) e poi condannata alla sorveglianza speciale per due anni in quanto “soggetto pericoloso”. Eddi è stata privata dei suoi diritti e delle sue libertà non tanto per aver commesso reati, ma per ciò che potrebbe commettere in futuro, continuando col suo impegno in Non Una Di Meno, nel movimento No TAV e in tutte le lotte politiche e sociali che da anni la impegnano. A Eddi vanno i miei ringraziamenti per aver lottato – continuare a lottare – e per aver raccontato la sua lotta, dando a tutte e tutti noi la possibilità di approfondire la questione. Berxwedan jiyane.

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Studentessa di Sociologia del Turismo e del Territorio e laureata in Scienze Politiche, attivista ecotransfemminista, per lavoro si occupa di filiera alimentare sostenibile e coltiva una passione per la traduzione transfemminista.
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