UNO SGUARDO SULLA PARTECIPAZIONE FEMMINILE E FEMMINISTA NEI MOVIMENTI CONTRO LE GRANDI OPERE.

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Le lotte contro l’imposizione di grandi opere che nell’ultimo decennio, in modo sempre più frequente e capillare, si sono sviluppate sui territori lungo tutto lo stivale, si sono contraddistinte per un significativo protagonismo femminile e, più recentemente, femminista, che tale articolo si propone di indagare, pur consapevole dei limiti rispetto alla possibilità di offrire uno sguardo su tale protagonismo che sia esaustivo e tenga conto della eterogeneità dei contesti.

All’interno di queste resistenze, non legate esclusivamente alle specifiche infrastrutture ma al paradigma di sviluppo insito nella politica delle grandi opere, la specificità della componente femminile e queer necessita di essere indagata e visibilizzata.

in questo contributo si cercherà di osservare in particolare quelle forme di attivazione politica all’interno dei movimenti per la giustizia ambientale che passano per il riconoscimento di una specifica condizione (quella di madre) o identità (quelle queer) tradizionalmente subordinate nella gerarchia eteropatriarcale, sebbene sia chiaro che la partecipazione di donne non si sovrapponga a quella di madri o di soggettività queer, e viceversa.

Dalla Valsusa a Niscemi, numerose donne si sono battute in prima linea contro la costruzione di grandi opere funzionali agli interessi politici, economici e strategici di pochi, e i loro volti hanno rappresentato per molt_ di noi un esempio di determinazione e coraggio. In numerosi casi, si sono costituiti specifici comitati organizzati esclusivamente da donne per attivarsi in modo conflittuale a difesa del territorio, declinata non in senso conservatore, escludente e xenofobo, ma in senso includente e dinamico, volta a significare quello spazio attraverso la costruzione di relazioni comunitarie.

Di questo processo ne sono esempio le Mamme No Muos a Niscemi, le Mamme No Tap a Melendugno, le Mamme No Inceneritore a Firenze o le Mamme No Pfas a Minerbe, per citarne alcuni.

Se è vero da un lato che tale processo di attivazione passa per il riconoscimento del ruolo di madre come centrale nella soggettivazione politica di numerose donne, è altresì vero che l’istanza di questi comitati si è ampliata sino a contemplare la rivendicazione universalistica di un modello di sviluppo differente per la comunità tutta e per le future generazioni.

Allo stesso tempo, l’ondata di mobilitazioni di Ni Una Menos che ha investito numerosi paesi, tra cui l’Italia, ha rilanciato l’attenzione sulla difesa dei territori e della terra da una prospettiva prettamente trans-femminista.

Ciò è avvenuto anche in Italia, quando, in occasione dell’assemblea nazionale di Non Una di Meno tenutasi a Pisa nell’Ottobre 2017, viene lanciato per la prima volta un gruppo di lavoro specifico sulle vertenze legate al territorio dal nome Terra, Corpi, Territori e Spazio Urbano. Lasciando parlare alcune attiviste direttamente coinvolte nel percorso, si riportano di seguito alcuni stralci dell’intervista (che si trova in versione integrale alla fine dell’articolo) realizzata l’8 dicembre a Torino, in occasione della manifestazione No Tav:

siamo un pezzo di NUDM, siamo nate a Pisa come tavolo e da Pisa poi abbiamo continuato a lavorare fino ad oggi e sostanzialmente quello che abbiamo è uno sguardo antispecista, ecofemminista e transfemminista rispetto a tutte le tematiche e quindi ci interessa molto la presenza di questo sguardo all’interno di NUDM[1]

Il tavolo, che oggi si è sviluppato e prende il nome di Assemblea Trans Territoriale, identifica una comune oppressione che lega tutti i corpi e, di conseguenza, una comune lotta di liberazione da tale oppressione: “tutti i corpi di cui parliamo, la terra, gli animali umani e non, tutte le soggettività sono unite da questa oppressione, da questa volontà di liberazione.”

Da questa consapevolezza nasce la volontà di intersecare le lotte. E ancora una volta modello di sviluppo capitalista e rapporti di dominio che lo accompagnano, sono l’oggetto di una ferrea critica.

La presenza di uno spezzone transfemminista nella giornata No Tav dell’8 dicembre segnala dunque l’inizio di un percorso[2] in grado di intrecciare le istanze e ricondurle ad un comune denominatore, rappresentato dalla messa in discussione dell’attuale modello di sviluppo e dal concetto stesso di sviluppo:

Sicuramente la lotta No Tav, la lotta No Tap, la lotta No Muos, la notta No Triv e tutte le lotte che sono state fatte sino ad ora, questo spazio di riflessione (ecofemminista e anticapitalista) lo aprono perché nel momento in cui si dice di no ad un certo tipo di sviluppo si dice anche che quello non è lo sviluppo. Cioè pensare che lo sviluppo corrisponda all’aumento del profitto è assolutamente sbagliato, cioè è un’ottica che va completamente capovolta[3].

Spezzone queer alla manifestazione No Tav, 8 dicembre 2018.

Da fronti e piani diversi, i comitati di mamme al pari delle soggettività queer, hanno fatto saltare la narrazione stereotipata e tossica delle donne come docili, propense alla moderazione e ai modi gentili.

Una rappresentazione che è emersa in tutta la sua evidenza in occasione della manifestazione Si Tav organizzata dalle cosiddette “Madamin”, donne bianche e altolocate, che hanno promosso l’iniziativa torinese, promettendo modi garbati[4] e inneggiando alla “rivoluzione gentile”[5].

“Madamin” in occasione della manifestazione Si Tav.

L’associazione tra la sfera del femminile e l’idea di rivoluzione gentile, e la sua narrazione mediatica, funzionale al mantenimento del potere capitalista e patriarcale, viene invece rifiutata e messa in crisi dalla mobilitazione conflittuale delle attiviste legate sia ai comitati di mamme che a Non Una Di Meno.

Le riflessioni che emergono da questa contrapposizione tra una rivoluzione dai modi garbati, da prendere ad esempio, e una radicale e sgarbata, da condannare, sono diverse.

La prima ha a che fare con la distribuzione del potere. Le possibilità che i gruppi hanno di accedere al sistema istituzionale e di incidere sul processo decisionale variano in base al potere economico e politico che questi hanno[6]. Così, mentre le Madamin dispongono di risorse finanziare, collegamenti con partiti e di un’ampia copertura mediatica che gli consentono di dare rilevanza ad una tematica di loro interesse, per raggiungere lo stesso obiettivo il comitato di mamme o il collettivo di attivist_ queer si ritroverà a dover ricorrere ad un repertorio di azione che varia dalle forme più convenzionali e moderate (le quali avranno scarsa copertura mediatica) a quelle più radicali (che, con ogni probabilità, saranno le uniche ad essere riportate sui media[7]).

L’utilizzo della protesta, e per di più in forme radicali, non dipende quindi dalla sola identità politica del gruppo[8], ma è fortemente legato all’assenza di forme altre per accedere al sistema politico e decisionale, da cui numerose soggettività sono escluse.  Questa considerazione ci aiuta a comprendere le ragioni per cui le Madamin possono permettersi di agire con garbo e gentilezza per rivendicare la realizzazione di un’opera che, tra l’altro, è già sostenuta praticamente da ogni schieramento partitico e da ogni media mainstream e che quindi non si pone in conflitto con il sistema dominante. Lo stesso garbo e la stessa gentilezza, non frutterebbero alcun risultato se a praticarle fossero dei soggetti esclusi aprioristicamente dal processo decisionale, se non per il momento delle consultazioni elettorali[9].

Senza voler dunque associare alla sfera del femminile (che intendo non come data e naturale ma come costruzione culturale) alcuna propensione alla gentilezza o alla violenza, le forme di lotta di cui ogni soggetto si dota sono da analizzare all’interno di un contesto politico in cui la distribuzione del potere è asimmetrica.

In parallelo a questo aspetto di tipo strutturale, vi è poi un discorso che, in modo più o meno esplicito, pone al centro di tali resistenze la lotta al sistema patriarcale nelle sue varie declinazioni.

Spesso, nei conflitti legati alle grandi opere, il diritto all’autodeterminazione dei territori è stato ignorato e calpestato, arrivando a militarizzare gli stessi territori per porre fine ad ogni forma di resistenza. Ne sono esempi ancora una volta la Valsusa, Melendugno, Chiaiano, Niscemi, e altri territori, dove lo Stato ha dato prova della sua forza muscolare[10].

In questo contesto, le donne che si battevano per la difesa del territorio sono state trattate al contempo in modo paternalista, descrivendole come “scudi umani” usati dai “violenti” durante le mobilitazioni, e in modo machista e muscolare, reprimendo con la violenza il loro dissenso.

Come evidenziato da un’attivista valsusina nell’articolo “Perché come donna sono No Tav”[11], apparso sul blog del movimento, nella narrazione dominante le donne non si ribellano, se lo fanno ricorrono a modi gentili. Se invece usano pratiche conflittuali, si tratterà inevitabilmente di strumentalizzazioni esercitate dai violenti verso il gentil sesso, i soggetti deboli e incapaci di autodeterminarsi, valutare e scegliere come lottare.

Questo dispositivo narrativo, come si accennava prima, viene fatto esplodere dall’azione stessa delle attiviste, che sfuggono ad ogni tentativo di categorizzazione, che ribaltano la “norma”, che si spogliano di ogni identità categorizzante, che disattendono ogni performance da loro richiesta.

“Cosa vi aspettate da noi? Dolcezza? Protezione? Docilità? Ci avrete ribelli, determinate, insubordinate.”. Sembra essere questo il leitmotiv che caratterizza la resistenza delle donne e delle soggettività queer all’interno dei movimenti contro le grandi opere.

E lo slogan “froce feroci contro treni veloci”, con il quale viene aperto lo spezzone queer l’8 dicembre, sembra dirci proprio questo. Ci immaginate dolci e sensibili? Saremo feroci.

La performance di una femminilità docile e premurosa, viene disattesa ogni qualvolta i comitati di Mamme, invitati a prendere le distanze sia fisicamente che idealmente dalle azioni maggiormente conflittuali, scelgono di restare e supportare lo scontro, di non tirarsi indietro, di legittimarlo, di chiamare quel che lo Stato chiama violenza, resistenza, e quel che lo Stato chiama ordine, repressione.

Ancora una volta, questo posizionamento fa saltare un ulteriore dispositivo narrativo finalizzato a perseguire la politica del divide et impera, operando distinzioni fittizie tra buoni (le mamme, le donne) e cattivi.

Anche l’accusa di essere strumentalizzate dai violenti, sollecitando di isolarli, viene abilmente ribaltata rispedendo l’accusa al mittente, e rivendicando il fatto di tentare già di isolare i violenti, identificati però nelle forze dell’ordine e dai militari. Inoltre nel 2013, in occasione dell’approvazione del decreto sul Femminicidio, saranno le donne valsusine da una parte, e le attiviste femministe dall’altra, ad accusare il governo, a quel tempo guidato da Enrico Letta (governo di larga intesa tra centro-destra e centro-sinistra) di strumentalizzare le donne per reprimere i movimenti, e, nello specifico, il movimento No Tav.

Infatti, in tale decreto, poi convertito in legge nel mese di ottobre, solo 5 articoli su 11 sono dedicati alla prevenzione della violenza di genere, mentre gli altri riguardano norme in materia di sicurezza per lo sviluppo, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, per la prevenzione e il contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale, protezione civile e di commissariamento delle Province. L’articolo 11, in particolare, legifera in vista di una ulteriore militarizzazione del cantiere Tav in Valsusa[12]. Tale strumentalizzazione viene immediatamente denunciata dalle/gli attivist* (FOTO3) e da diverse forze politiche[13], che accusano il governo Letta di fare leva sull’urgenza di intervenire sul contrasto alla violenza di genere per fare approvare una legge al cui interno si collocano una serie di misure securitarie e repressive nei confronti del dissenso politico.

Striscione legato all’approvazione della legge sul femminicidio.

Attraverso l’esperienza stessa della lotta contro l’imposizione di grandi opere, prende forma, sebbene in modo ancora frammentato, un discorso ideologico capace di mettere in dialettica capitalismo e patriarcato, che trovano nello Stato un legittimo garante. Ma è vero anche il contrario.

Nel caso dell’Assemblea Trans-territoriale di NUDM, è la teoria a condurre ad una prassi intersezionale, capace di identificare nella lotta contro l’imposizione di grandi opere una rivendicazione universale del principio di autodeterminazione.

Come emerge dall’intervento di NUDM Roma all’assemblea nazionale dei movimenti contro le grandi opere in vista del 23 marzo[14]Il Piano di Non Una Di Meno ha riconosciuto il biocidio e la devastazione ambientale come una delle espressioni della violenza patriarcale contro i corpi delle donne, delle soggettività LGBPT*QIA, degli animali umani e non umani, della terra.  Una violenza sistemica, che si fonda in tutti gli ambiti del vivere su logiche di proprietà e sfruttamento del capitalismo estrattivista, pastorale e patriarcale in cui i corpi oppressi di animali umani e non e la terra sono al contempo “femminilizzati” e “naturalizzati”. Una violenza che invisibilizza e criminalizza le lotte per il diritto alla libertà e all’autodeterminazione sui nostri corpi e per la difesa di terra, acqua, aria, boschi..”. [15]

Ancora, come racconta Marita, imporre grandi opere significa “opprimere un territorio, opprimere le persone che su questo territorio vivono, opprimere gli animali che vi vivono, opprimere la terra (e questo) sta pienamente dentro un discorso ecotransfemminista, questa cosa ci unisce.”[16]

Ed è l’obiettivo dell’autodeterminazione che, di conseguenza, tiene unite queste battaglie a lungo condotte separatamente ma che, negli ultimi mesi, stanno iniziando a muovere i primi passi insieme, verso un comune traguardo.

Tale processo, sino ad ora scarsamente preso in considerazione sia nel dibattito accademico che in quello politico-militante, consente di significare realmente l’intersezionalità tra lotta al capitalismo e lotta al patriarcato, e ci permette di pensare ad essa non solo come un orizzonte utopico ma come una pratica che ci interroghi sulle radici dell’oppressione e ci conduca verso una liberazione che, seppur tenendo conto delle varie specificità, possa essere comune.

Con questo contributo, che certo non ha la pretesa di restituire in poche pagine la rilevanza che questa intersezione di lotte ha, e tantomeno di rappresentare in modo esaustivo tutta la partecipazione delle donne e delle soggettivitù queer all’interno dei movimenti osservati, si spera di sviluppare in modo più organico uno spazio di riflessione su femminismo e lotta alle grandi opere.

Intervista a Marita Cassan e un’altra attivista (O. J.) del gruppo Assemblea Trans Territoriale di Non Una Di Meno, Torino, Manifestazione No Tav, 8 dicembre 2018

Perché vi sentite di partecipare come tavolo Terra Corpi Territori e Spazi Urbani (TCTSU) a questa giornata?

Marita: “Noi siamo qua con un po’ di compagne non più del tavolo TCTSU ma ci chiamiamo Assemblea Trans Territoriale. Siamo un pezzo di Non Una Di Meno, siamo nate a Pisa come tavolo e da Pisa poi abbiamo continuato a lavorare fino ad oggi e sostanzialmente quello che abbiamo è uno sguardo antispecista, ecofemminista e uno sguardo transfemminista rispetto a tutte le tematiche. Ci interessa molto la presenza di questo sguardo all’interno di NUDM nel senso che noi consideriamo il discorso specista quindi il discorso di dominio da parte dell’umano rispetto alla terra, rispetto agli animali, umani e non, perché il nostro discorso parte da un discorso di oppressione che riguarda sicuramente le donne, i corpi ti tutte le soggettività quindi le soggettività trans, le soggettività intersex, le soggettività non binarie, e tutte queste soggettività hanno il diritto di poter essere parte di questo movimento, di poter esprimere le alleanze e le necessarie reti di lotta comune. Pensiamo che questo tipo di oppressione passi anche per i corpi degli animali che continuiamo a sfruttare perché ci diano qualcosa a partire dai prodotti dei loro corpi utilizzati in modo molto violento ma anche i loro corpi stessi che vengono uccisi, utilizzati, mangiati in una società che non ne ha più bisogno e pensiamo anche ai diritti della terra perché il capitalismo e questo modello economico continua a sfruttare le risorse della terra per fare del profitto, e non come bene comune da utilizzare. Principalmente leggiamo questa oppressione e la liberazione da questo tipo di oppressione come una rivolta importante e necessaria perché siamo ovviamente ad un punto di non ritorno rispetto al clima, rispetto alla stessa terra, cioè le monocolture di soia piuttosto che l’abbattimento delle foreste che è quello che succede in Sudamerica dove intere zone sono state assolutamente spopolate, le popolazioni indigene vengono criminalizzate, così come vengono criminalizzati i movimenti della società occidentale perché essere No Tav vuol dire essere terroristi. Siamo arrivati qua in piazza e ci sono tutti i cassonetti con i lucchetti, c’è tutta questa repressione, le camionette della polizia eccetera, quindi tutti questi corpi di cui parliamo, la terra, gli animali umani e non, tutte le soggettività, ci rendiamo conto sono unite da questa oppressione, da questa volontà di liberazione.”

Che obiettivo vi ponete partecipando alla mobilitazione contro le grandi opere?

M: “Allora noi pensiamo che i movimenti debbano essere assolutamente intersezionali e che sia molto importante partire dalla presa di parola delle persone migranti, delle soggettività cosiddette non conformi, in modo che non ci sia un’esclusione di queste persone o comunque non ci sia una presa di parola per, quindi stiamo attraversando luoghi che si incontrano, gruppi, centri sociali, collettivi diversi, che hanno come obiettivo quello di lavorare contro le grandi opere. Il nostro obiettivo è sostanzialmente creare delle alternative rispetto a questo perché va bene dire che siamo contro le multinazionali che fanno il monocoltivo di soia nelle terre della popolazione guaranì, però cosa significa questo? Se siamo contro quelle multinazionali, e quelle multinazionali sono occidentali, noi cosa facciamo? Continuiamo a comprare l’energia elettrica da quelle multinazionali? Continuiamo ad acquistare l’hp che è israeliano e sta occupando la Palestina? Continuiamo a comprare le cose nella plastica sapendo che la plastica sta ormai invadendo la nostra terra e che c’è un’isola di plastica grande tre volte la Francia? C’è bisogno di assumere collettivamente e individualmente, io penso, la responsabilità rispetto ai nostri comportamenti, alle cose che facciamo, perché se io dico che sono contro queste cose e poi vado da Zara a comprarmi la maglietta di due euro senza chiedermi chi sta lavorando per quella maglietta di due euro, e sono le donne o i bambini del Bangladesh che rischiano di morire ogni due giorni in queste fabbriche, ovviamente non sto facendo niente per cambiare questo sistema. Quindi si tratta individualmente di assumersi delle responsabilità, trovare delle alternative e fare in modo che questi discorsi individuali siano dei discorsi collettivi, cioè che insieme costruiamo delle pratiche e che siano alternative, costruiamo un’economia che sia alternativa a quella del capitale.”

Secondo voi la lotta No Tav offre uno spazio per questo tipo di elaborazioni. Cosa vedete in questo tipo di lotta?

M: “Sicuramente la lotta No Tav, la lotta No Tap, la lotta No Muos, la lotta No Triv, e tutte le lotte che sono state fatte sino ad ora, questo spazio di riflessione lo aprono perché nel momento in cui si dice di no ad un certo tipo di sviluppo si dice anche che quello non è lo sviluppo. Cioè pensare che lo sviluppo corrisponda all’aumento del profitto è assolutamente sbagliato, è un’ottica che va completamente capovolta. Io per esempio sono per la decrescita, lo sviluppo non mi interessa perché se lo sviluppo ha portato a questo, ha portato alla quasi distruzione di questo pianeta, non si può continuare ad avere questo tipo di obiettivi nella nostra società perché questo tipo di obiettivi portano alla distruzione, non c’è verso, portano ad un illusorio soddisfacimento dei bisogni per cui entriamo nei negozi, ci compriamo delle cose e pensiamo di essere felici perché così è l’induzione, siamo stati indotti a pensare che il soddisfacimento di questo desiderio sia un bisogno. No, il nostro bisogno è costruire un pianeta diverso, il nostro bisogno è viverre in una maniera completamente diversa, il mio bisogno è respirare, mangiare senza fare del male ad altri esseri viventi, avere l’acqua pulita, gratuita. Il bisogno di una popolazione indigena è che non li facciamo quella diga, quella miniera, che non li tolgano l’acqua per irrigare i campi e quindi io sento che la mia lotta si relaziona e si interseziona con la lotta di questi altri popoli, io non sento un discorso di solidarietà. Se vado dai guaranì non vado a portare la mia solidarietà, se vado dai guaranì vado a portare il mio pezzo di lotta in un mondo occidentale che fa il paio con il loro pezzo di lotta lì, e se loro occupano una terra io li appoggio e la sostengo perché quella terra soddisfa anche il mio bisogno di cambiare il mondo qua.”

O: “Io ad esempio sono qua per portare la mia esperienza antispecista, perché ritengo che comunque la questione animale sia sempre un po’ messa ai margini, quindi penso che anche questo tipo di lotta debba essere inclusa a pieno titolo negli altri tipi di lotta proprio perché la questione animale così chiamata ha proporzioni proprio da sterminio e quindi mi sembra importante portare questa testimonianza.“

Secondo voi qual è l’anello di congiunzione tra la lotta No Tav, No Tap, No Muos, e la lotta trasfemminista?

M: “Secondo me il punto di unione è l’oppressione. Così come si opprime un territorio facendo la Tav, si opprime un territorio, si cambia profondamente un territorio tra l’altro senza un obiettivo preciso perché l’obiettivo è quello di ‘creare dei posti di lavoro’ o comunque di fare una cosa che, è stato dimostrato, non serve assolutamente a niente. Quindi opprimere un territorio, opprimere le persone che su questo territorio vivono, opprimere gli animali che vi vivono, opprimere la terra, sta pienamente dentro un discorso ecotransfemminista, perché questa cosa ci unisce. È l’oppressione che ci unisce e quindi l’obiettivo di liberazione ci unisce.”

O: “Si praticamente il tratto che ci unisce come diceva Marita è il dominio sui corpi, il non lasciare che tutte le soggettività si possano autodeterminare anche se la parola autodeterminazione è comunque relativa in un sistema che ha una presa quasi completa su tutti i corpi.”

M: “Per esempio, noi abbiamo portato qui il volantino di rigeneriamoci liberamente, e appunto che senso ha portare adesso ai No Tav questo volantino? Perché in questa campagna che noi facciamo, rigeneriamoci liberamente, si parla proprio dell’autodeterminazione dei corpi, l’obiettivo è quello. Cioè perché una persona trans per poter essere trans nella maniera in cui decide di esserla deve passare da una sentenza psichiatrica che dice che è patologicamente disforica/o/u perché altrimenti non può accedere alla terapie necessarie oppure all’intervento, perché un neonato/a/u intersex viene mutilato genitalmente alla nascita senza aspettare che possa decidere autonomamente sul proprio corpo, perché se una ragazza dice in famiglia di essere lesbica può essere sequestrata, come è successo un mese fa a Roma, per più di una settimana dalla famiglia perché cominciano le terapie insieme alla chies,a perché è una malattia da curare. Questa cosa vuol dire che non esiste nella nostra società la libertà di autodeterminarsi, di decidere cosa fare del mio corpo, di che genere mi sento di essere, quale sessualità voglio vivere e di impormi un modello che deve essere comunque sempre quello binario, quello eteronormato. Il decreto Pillon è la ciliegina sulla torta rispetto a questo: esiste una sola famiglia, madre e padre, tutte le altre famiglie non esistono, non sono interessanti, non sono importanti, non esistono addirittura. Pillon ha detto che non esistono, che l’omosessualità non esiste, è una malattia e quindi dico contro questa cosa, anche questa è liberazione, l’obiettivo fondante è veramente la liberazione.”


[1] Intervista Assemblea Trans Territoriale, Torino, 8/12/18

[2] A partire dalla giornata dell’8 dicembre, l’Assemblea Trans Territoriale ha deciso di prendere parte al percorso nazionale dei movimenti conto le grandi opere, nato con l’incontro di Venezia del 29 e 30 settembre 2018. Qui l’appello: http://www.nograndinavi.it/invito-aperto-ad-unassemblea-nazionale-dei-comitati-contro-le-grandi-opere-e-per-la-giustizia-ambientale/

[3] Intervista Assemblea Trans Territoriale, Torino, 8/12/18

[4]https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/11/08/news/le_organizzatrici_della_protesta_si_tav_rivoluzione_garbata_senza_simboli_di_partito_-211125318/

[5] https://torino.corriere.it/politica/18_novembre_05/donne-si-tav-piazza-noi-madamin-rivoluzione-gentile-9a79fd92-e0d1-11e8-b7b1-47f8050d055b.shtml

[6] Questa considerazione ci riporta alle tesi di Lipsky, studioso di movimenti sociali, il quale argomentava come la protesta rappresenti l’unica forma di influenza diretta sui decision-makers e unica risorsa politica dei gruppi senza potere. A proposito si veda: Lipsky, M., 1965, Protest and City Politics, Rand McNally & Co., Chicago

[7] Quella della copertura mediatica delle azioni di protesta è una delle questioni più spinose che riguardano i movimenti sociali. Raggiungere l’opinione pubblica e influenzarla a proprio favore, affinché questa si esponga e faccia pressione sugli organi decisionali, è uno degli obiettivi della protesta. In questa relazione, un ruolo centrale è ricoperto dai media. Spesso i movimenti sociali non riescono ad ottenere un’adeguata copertura mediatica, se non, raramente e superficialmente, senza alcuna elaborazione dei temi della protesta (Rochon, T. R., 1988, Between Society and State: Mobilizing for Peace in Western Europe, Princeton University, Princeton). Le azioni pacifiche, che potrebbero riscuotere un ampio consenso, tendono ad essere omesse, mentre sono le azioni che rispondono ai criteri di notiziabilità, in termini di radicalità e ampiezza, ad avere maggiore copertura ma ad essere anche più esposte alla condanna da parte dell’opinione pubblica (della Porta, D., Diani, M., 1997, I Movimenti Sociali, Carocci Editore).

[8] Il repertorio di azione scelto da un gruppo politico è largamente influenzato dalla subcultura de_ attivist_, per cui vi sono soggetti che prediligono forme di protesta convenzionali-moderate, ed altri che per visioni ideologiche ritengono opportuno agire su un piano radicale-conflittuale (Tilly, C., 1986, The Contentious French, Harvard University Press, Cambridge). Tuttavia, tale repertorio può variare in base alle strategie con cui la controparte sceglie di confrontarsi con la protesta: la repressione può condurre anche gruppi maggiormente moderati ad una radicalizzazione nel conflitto (Tilly, C., 1987, From Mobilization to Revolution, McGraw-Hill, New York, NY).

[9] L’esclusione dai processi decisionali non deve intendersi come impossibilità di esercitare il diritto di voto, ma come impossibilità/incapacità di attivarsi in modo informato attraverso canali istituzionali alle questioni di interesse del singolo o del gruppo. Tale impossibilità/incapacità, non deriva da un divieto esplicito, ma da ciò che Alessandro Pizzorno (Pizzorno, A., 1966, Introduzione allo studio della partecipazione politica, Quaderni di Scienza Politica 3/4, pp.231-287) concettualizza attraverso la teoria della centralità sociale. Egli ritiene che vi siano delle condizioni strutturali, legate allo status socioeconomico, che privilegiano i soggetti dotati di risorse culturali, economiche, di tempo, o appartenenti a settori culturali/linguistici dominanti, nell’ambito della partecipazione politica. I soggetti dotati di scarse risorse sociali ed economiche tendono dunque a restare relegati ai margini del processo decisionale, se non nel momento del voto.

[10] Non mi soffermo qui sulle implicazioni della militarizzazione dei territori e sul significato insito nel gestire il dissenso come una questione di ordine pubblico attraverso continui provvedimenti emergenziali, oramai divenuti ordinario strumento di governo. Sarebbe necessario analizzare più a fondo in che misura le donne e le soggettività queer possano essere esposte agli abusi in divisa in virtù della loro insubordinazione ad un sistema muscolare e patriarcale che nelle forze di polizia e nelle forze dell’ordine trova la sua espressione. Indubbiamente i precedenti non sono rassicuranti in tal senso.

[11] http://www.notav.info/post/perche-come-donna-sono-notav/

[12]https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/10/11/violenza-contro-donne-si-scrive-decreto-femminicidio-ma-e-legge-omnibus/740552/

[13]http://www.notav.info/post/il-decreto-sul-femminicidio-usato-strumentalmente-per-introdurre-misure-che-reprimono-il-dissenso/

[14] Il 23 marzo si terrà la manifestazione nazionale “Marcia per il clima, contro le grandi opere inutili” che riunirà per la prima volta tutti i gruppi, comitati e movimenti che in tutto il paese si stanno attivando contro la devastazione ambientale.

[15] Intervento NUDM Assemblea movimenti contro le grandi opere inutili e imposte, Roma, 26/01/19

[16] Intervista Assemblea Trans Territoriale, Torino, 8/12/18

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