“Basta Veleni”: nuovi ecologismi tra le crepe del “modello Brescia”

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Il 10 aprile 2016[1] a Brescia sono scese in piazza oltre 10000 persone per denunciare la grave situazione ambientale della provincia, per chiedere un cambio radicale nella gestione del proprio territorio, a partire proprio da una moratoria che fermi cave, discariche, trivellazioni e grandi opere infrastrutturali, per far si che si apra una lunga e complicata stagione di bonifiche. La manifestazione è stata promossa attraverso una piattaforma redatta e firmata da oltre 70 sigle tra associazioni, comitati e realtà sociali. Un risultato storico che rappresenta il culmine di un processo di messa in relazione e generalizzazione delle rivendicazioni iniziato tra i comitati e i soggetti ambientalisti qualche anno prima. Una svolta importante per una provincia che, almeno a livello di senso comune, è sempre stata caratterizzata dalla mancanza di conflitti legati alle tematiche ambientali. Questa data rappresenta, con tutta probabilità, la definitiva irruzione nello spazio pubblico di un movimento per la Giustizia Ambientale, in linea con quanto sta accadendo in altre parti del mondo. Con movimento per la giustizia ambientale si intende un movimento che si batte contro un’ingiusta distribuzione dei carichi ambientali nel proprio contesto di vita, dovuta a relazioni di potere asimmetriche vissute a proprio svantaggio. Nel caso della provincia di Brescia questa distribuzione ecologica diseguale avviene sulla base di dinamiche economiche innescate dalla ristrutturazione neoliberista degli ultimi decenni. Con Neoliberismo si intende quella teoria economica che, a partire dalla fine degli anni ’70, ha dominato le politiche dei governi occidentali. Un progetto di ristrutturazione della società basato su una precisa concezione filosofica della natura e della società come un insieme di soggetti naturalmente portati a competere tra loro: “il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio. Il ruolo dello stato è quello di creare e preservare una struttura istituzionale idonea a queste pratiche”.[2] In questo quadro la natura diventa strumento per avviare nuovi processi di accumulazione, con l’obbiettivo di modificare le relazioni sociali con l’ambiente per trasferire sul mercato nuovi beni e servizi. La fiducia indiscussa nella capacità di modificare il “limite” degli ecosistemi attraverso le tecno scienze, è uno dei cuori di questa ideologia economica. I contesti locali-territoriali vengono così inseriti in un processo di competizione globale, nel quale diventa centrale la capacità di un dato contesto ad atterrare flussi di risorse e di capitali. Trasferendo quanto detto nel territorio bresciano, la sua capacità ad attrarre e gestire flussi di rifiuti è diventata un elemento da assecondare nel quadro della nuova competizione globale neoliberale tra i territori. Le politiche pubbliche di pianificazione territoriale (Piano Cave e Piano Rifiuti) nonché le lacunose normative nazionali sul tema dei rifiuti (decreto Ronchi) si muovono nella direzione di incentivare questa specializzazione, favorendo così l’avvio di nuovi processi di accumulazione a partire dall’“internalizzazione” nei processi economici di esternalità negative derivanti dalla produzione industriale: le cave esaurite diventano buche da riempire con rifiuti industriali.

Lungi dal voler analizzare scientificamente l’ambientalismo bresciano in quanto fenomeno storico-sociale, questo articolo vuole provare ad offrire alcune chiavi interpretative per leggere in maniera critica l’evento del 10 aprile e, più in generale, alcuni aspetti toccati dalle mobilitazioni ecologiste degli ultimi anni. La posizione è chiaramente critica rispetto ai modelli neoliberisti imposti e alle letture patologiche con cui vengono trattati i conflitti inerenti questioni ambientali (sindrome NIMBY). L’occasione per fare ciò si è data attraverso la possibilità di osservare in maniera partecipante le assemblee di costruzione del tavolo di lavoro e il suo costituirsi in soggetto politico capace, nel giro di pochi mesi, di mettere in campo una manifestazione di protesta così imponente e partecipata. Nonché dalla possibilità di usufruire, per reperire dati e informazioni, di un cospicuo lavoro sul campo condotto dal 2011 al 2013 da Giovanni Lonati[3], dottorando ai tempi presso l’università IUAV di Venezia.

L’utilizzo delle chiavi di lettura offerte dall’ecologia politica permette di cogliere alcuni elementi di novità rispetto ai classici movimenti ambientalisti. In particolare, le rivendicazioni  e il lessico portati avanti dagli attori di questi conflitti mostrano una capacità nuova nel confrontarsi col modello neoliberale, con un superamento di alcune “tradizionali” rivendicazioni ambientaliste. In ciò probabilmente si trova la chiave del riconoscimento e del successo della manifestazione “Basta Veleni”.

Brescia e i suoi problemi ambientali

Innanzitutto va chiarito cosa si intende parlando della grave situazione ambientale che riguarda Brescia e la sua provincia. Questo perché, ad uno sguardo superficiale, la provincia bresciana risulta essere uno dei territori economicamente più sviluppati in Europa e rappresenta alla perfezione l’immaginario di una città prosperosa, con alti livelli di occupazione e reddito, con un sistema di servizi efficiente e un’elevata infrastrutturazione del proprio territorio. Una provincia, quindi, in grado di competere a pieno titolo nei mercati internazionali e con un’elevata capacità ad attrarre investimenti, risorse e capitali anche dall’estero. Nemmeno l’odierna crisi dei mercati finanziari sembra aver scalfito l’immagine di una città virtuosa e prosperosa. Tutto ciò nonostante la crisi abbia acuito le differenze tra le varie classi sociali, polarizzando la ricchezza nella mani di una consistente classe imprenditoriale a reddito molto elevato[4].  La città e la sua provincia, quindi, sembrano aver mantenuto lo status di territorio economicamente solido e competitivo, almeno per quel che riguarda gli indicatori socio-economici capitalistici[5].

Fatta questa premessa, rimane da chiedersi che origine abbiano, dunque, le problematiche ambientali oggetto delle proteste dei cittadini e quali siano i processi (economici) all’origine del continuo degrado ambientale che il territorio bresciano continua a subire?

Lo stabilimento Caffaro a Brescia

Appare evidente che il problema ambientale bresciano ha origine nella sua recente storia industriale. Simbolo indiscusso è certamente la vicenda che riguarda l’industria chimica Caffaro. Nella sua quasi secolare attività (1906-1997), l’azienda ha prodotto e disperso, a ridosso del centro cittadino, tonnellate di sostanze tra le più pericolose per la salute umana quali PCB, diossine, mercurio, cloro, inquinando fortemente una porzione di territorio dove abitano 35000 persone. Si tratta di uno dei siti d’interesse nazionale in attesa di bonifica tra i più estesi d’Europa con i suoi quasi 4 milioni di metri quadri. La (ri)scoperta del suo inquinamento è purtroppo un fatto recente[6].

Aldilà della vicenda della Caffaro, la città di Brescia e la sua provincia possono vantare numerosi record che la collocano ai primi posti in Italia e Europa per inquinamento atmosferico (Brescia è nel centro della pianura padana, una delle zone più inquinate a livello europeo), contaminazione delle acque (l’ASL ha riscontrato livelli preoccupanti di cromo esavalente e solventi vari nelle acque di falda) e del suolo (nel 2006 a Brescia si è registrato il picco italiano per deposizione di diossine al suolo[7] nonché un record per quel che riguarda la cementificazione del proprio territorio).

In particolare però, ad essere oggetto delle contestazioni più dure da parte dei comitati di cittadini, c’è il settore della gestione dei rifiuti e in particolare il meccanismo cava-discarica. Il volume di rifiuti interrati nel bresciano denunciato dal documento prodotto dal tavolo Basta Veleni è impressionante: parla di 58.705.500 milioni di metri cubi di rifiuti interrati nel suolo provinciale. Un numero che si basa su dati forniti da fonti ufficiali: come documenta il censimento prodotto nel 2005 dalla Provincia di Brescia per redigere il nuovo Piano provinciale rifiuti, nel bresciano sarebbero tumulati in discarica 35 milioni di metri cubi di rifiuti speciali; a questa cifra andrebbero aggiunti i 5 milioni di metri cubi che, secondo stime, sarebbero stati prodotti dal settore chimico e metallurgico fino all’entrata in vigore nel 1982 della normativa che regolamenta i rifiuti speciali; 7 milioni e 900 mila metri cubi riguarda il totale dei terreni inquinati da Pcb disperso dalla Caffaro; infine, secondo stime fornite dall’Ispra, dal 2006 ad oggi sarebbero finiti in discarica ulteriori 10 milioni e 900 mila metri cubi.

Cave a Montichiari

Una cifra enorme che testimonia la specializzazione del  territorio bresciano nello smaltimento dei rifiuti. Tale specializzazione si lega in maniera profonda alle vicende di due storiche attività del modello industriale bresciano: il settore siderurgico e l’edilizia. Proprio loro sono state le protagoniste e le locomotive del boom economico in terra bresciana. L’industria siderurgica bresciana si è sviluppata e consolidata attorno alla raccolta e lavorazione dei rottami, particolarmente abbondanti nell’Italia del secondo dopoguerra; l’edilizia, invece, oltre a contare su un elevatissimo numero di  maestranze locali, ha come pilastro l’attività estrattiva di sabbie e ghiaie: basti pensare che il catasto regionale censisce ben 362 cave nel territorio provinciale, divise tra le 183 attive e le 179 cessate. Detto questo appare naturale[8] come, nel momento in cui si arriva a regolamentare la gestione dei rifiuti speciali obbligando il loro conferimento in discarica[9], le cave diventino tutto a un tratto il luogo ideale per rispondere alle necessità di smaltimento delle scorie industriali. Tale necessità crea di fatto le premesse affinché i cavatori colgano l’occasione per trasformare i propri “buchi” dismessi in discariche da riempire, garantendo loro un’enorme possibilità di profitto attraverso la trasformazione dei costi di ripristino della cava in guadagno derivante dallo smaltimento dei rifiuti. In questo modo il ciclo si chiude e un potenziale costo viene internalizzato nel processo economico, offrendo così nuove possibilità di guadagno (“si guadagna scavando, si guadagna riempiendo[10]”). Le politiche provinciali e regionali in materia di gestione dei rifiuti, di ispirazione fortemente neoliberista, sono inoltre intervenute ad incentivare questa specializzazione e a permetterle di sopravvivere alla crisi profonda occorsa sia nel comparto siderurgico sia in quello edilizio. Grossi gruppi imprenditoriali italiani del settore hanno potuto così affiancare le imprese locali (divenute anch’esse veri e propri colossi imprenditoriali[11]) e contribuire in questo modo a fare di Brescia un polo nevralgico nel campo della gestione dei rifiuti in Italia. In questo senso, la capacità sviluppatasi nel territorio nel gestire i flussi di rifiuti, sia prodotti al suo interno sia quelli provenienti da altre regioni, è stata vista dai legislatori pubblici e dagli attori economici come un elemento positivo di competitività economica di questo territorio nel quadro delle trasformazioni neoliberiste occorse negli ultimi decenni. Il “Piano cave della Provincia di Brescia” e il “Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti della Lombardia” sono due preziose testimonianze di come l’attività politica istituzionale si sia comportata da facilitatrice per gli interessi dei diversi attori del settore del rifiuto, governando questo processo attraverso il più completo laissez faire.

Fumata nera dall’inceneritore cittadino

Andrebbe inoltre aperto un capitolo a parte relativo alle grandi opere infrastrutturali e al corollario di cave di prestito che le accompagna. La necessità di reperire materiali idonei per la loro realizzazione, nonché una legislazione che permette “l’estrazione di sostanze di cava in ambiti estrattivi non previsti dai piani fino all’integrazione dei quantitativi occorrenti”[12] ha permesso di disseminare nuovi “buchi” per la provincia. Basti pensare al “boom” di grandi opere di interesse statale o regionale realizzate dal 2000 ad oggi: dall’autostrada Bre. Be. Mi. al raccordo autostradale “Corda Molle”, dal Tav Treviglio – Brescia alle tangenziali che attraversano la provincia, ecc. Per la realizzazione del contestatissimo progetto Tav Brescia – Verona è stata avanzata la richiesta di poter estrarre addirittura quasi 11 milioni di metri cubi di sabbia, nonché l’utilizzo di materiali da costruzione provenienti dal trattamento di scorie industriali[13]. Sicuramente queste opere rappresentano un’occasione importante e fondamentale per rafforzare i metabolismi cava-discarica.

Ulteriore simbolo della specializzazione nel trattamento rifiuti è l’inceneritore (termo utilizzatore) di Brescia. Si tratta del più grosso impianto attivo in Italia e uno dei maggiori impianti europei, capace di bruciare fino a 800000 tonnellate di rifiuti per produrre energia. Una capacità di incenerimento sovradimensionata rispetto alle reali necessità di gestione dei rifiuti prodotti a Brescia, siano essi di origine urbana o di origine industriale, con le quali si era giustificata la realizzazione e l’apertura dell’impianto. Seppur negli ultimi anni si sia registrata una diminuzione del materiale incenerito, passando dalle 809.327 tonnellate del 2010 alle 686.576 tonnellate del 2014, gran parte del rifiuto proviene da fuori provincia[14]. Dunque l’inceneritore di Brescia si è trasformato, nonostante sia stato costruito per diminuire il numero di scorie da conferire in discariche, in un vero e proprio polo attrattivo per i rifiuti, soprattutto speciali. Innanzitutto in termini materiali, l’impianto infatti attira, da un lato, migliaia di tonnellate di rifiuti speciali provenienti da tutta Italia per mantenere inalterato il potere calorifico dell’impianto, dall’altro ha relegato la città di Brescia a fanalino di coda lombardo per la raccolta differenziata[15]. Notevole anche l’indotto che si è venuto a creare attorno al trattamento delle ceneri, con aziende che si sono trasformate in veri e propri leader nazionali in questo specifico settore[16]. L’attrattività dell’inceneritore andrebbe misurata anche in termini simbolici: dal 1993 ad oggi a2a, la municipalizzata che controlla l’impianto, è stata protagonista di una produzione[17] massiccia e incessante di narrazioni eco efficientiste (spell of eco-efficiency[18]) volte a ridimensionare sia le ricadute ambientali che questo impianto produce sia il ruolo che gioca nell’economia del “distretto del rifiuto” bresciano. In un certo senso si potrebbe dire che l’inceneritore bresciano rappresenta proprio il fiore all’occhiello di un distretto del rifiuto “tecnologicamente avanzato e professionalmente competente”[19].

Nuovi soggetti “ambientalisti”: nascono i comitati cittadini

Tra i fattori che hanno concorso a creare il “caso Brescia” ci sono sicuramente da annoverare le ragioni di matrice socio-culturale. In particolare, nella popolazione bresciana si può riscontrare una diffusa accettazione verso tipologie di industria particolarmente impattanti[20]. Parte delle ragioni di questa generale accettazione sta nel ruolo storico svolto sia dalle attività metallurgiche e siderurgiche sia dalle attività estrattive: entrambe, infatti,  hanno caratterizzato la storia economica di questo territorio fin dall’antichità. In particolar modo, poi, lo sviluppo di queste attività “tradizionali” avvenuto sotto l’impulso del boom economico capitalista degli anni sessanta ha garantito non solo il successo internazionale dell’industria bresciana del tondino e dell’acciaio, ma ha anche permesso che si accumulassero enormi ricchezze in territori storicamente miseri e marginali (le vallate alpine e prealpine bresciane sono da considerarsi in questo senso un caso emblematico)[21].

Tuttavia, nonostante questa diffusa accettazione, nel territorio in questione si trovano comunque numerose tracce di resistenza al degrado ambientale. A partire dagli anni novanta, nella provincia bresciana si comincia ad intravedere un cambio di tendenza con l’entrata in scena delle prime mobilitazioni in difesa dell’ambiente e della salute. In particolar modo le proteste sorgono attorno a vari progetti di realizzazione di inceneritori di rifiuti, che portano alla fondazione dei primi comitati di cittadini, estranei alle associazioni e ai partiti ambientalisti che fino ad allora avevano guidato le proteste riguardanti le tematiche ambientali[22]. Queste fenomeno è in linea con la progressiva diffusione a livello globale di mobilitazioni attorno alle tematiche ecologiche.

Corteo RAB il 17 Marzo 2012

Ma è dopo il 2000 che questi nuovi soggetti cominciano ad affermarsi sulla scena pubblica, diventando gli attori principali delle proteste ambientaliste. Un vero e proprio boom che mostra quanto forti siano gli impatti sul territorio provinciale. Con il termine comitato si intende un gruppo di cittadini che spontaneamente si organizza su base territoriale, generalmente per opporsi all’apertura di un’attività produttiva riconosciuta come nociva e particolarmente impattante[23] . La diffusione del fenomeno è importante, basti pensare che un censimento condotto sui casi di conflitto ambientale nel bresciano ne segnala 54 attivi nel 2012[24] fino ad arrivare agli oltre 70 che hanno promosso la manifestazione Basta Veleni del 2016. Sicuramente la diffusione di questo fenomeno va inquadrata in una più generale attenzione alle tematiche ecologiche che va diffondendosi in Italia a partire dalla fine degli anni ’90 e gli inizi del Duemila, in linea con alcune rivendicazioni ambientaliste del movimento contro la globalizzazione. In particolare, nel contesto bresciano, trovano spazio pratiche di consumo critico legate a gruppi d’acquisto[25] nella maggior parte dei casi vicini al mondo dell’associazionismo cattolico, ma non solo. A questa ragione va poi aggiunta la nascita in Italia di lotte territoriali che si battono contro la realizzazione di grandi opere infrastrutturali. Tali lotte, e tra queste la più significativa è la battaglia contro l’alta velocità in Val di Susa, assumo un ruolo centrale sempre più importante nello scenario politico nazionale, contribuendo a modificare gli immaginari dei soggetti protagonisti del conflitto ambientale anche a Brescia.

Sicuramente l’influenza di questi processi ha permesso  ai comitati di non limitare il proprio intervento sulle singole vertenze, ma gli ha resi protagonisti di tentativi di messa in relazione (networking) attraverso la costruzione di reti, di pratiche di mutuo soccorso, di scambio di conoscenze[26]. Il corteo e il tavolo di lavoro  Basta Veleni ne sono solo l’ultimo esempio, ma basta pensare che, a cavallo tra 2014 e 2015, ci sono state ben otto manifestazioni composte da diverse migliaia di persone[27] in diverse località, anche piccole, della provincia, nonché numerose altre forme di protesta.

Se non si può dire che l’azione di questi comitati sia riuscita a diminuire i carichi ambientali sul proprio territorio, qualche vittoria è sicuramente stata ottenuta: una delle più importanti è sicuramente la battaglia vinta contro l’installazione di una centrale a Turbogas ad Offlaga, ma anche la bonifica dei giardini di alcune scuole nella città di Brescia comprese nel S.I.N. Caffaro, l’inizio dei trattamenti per migliorare la qualità dell’acqua potabile contaminata da cromo VI, la vittoria contro il gassificatore di pollina a Bedizzole e la discarica d’amianto nel quartiere cittadino di S. Polo. Tutti risultati ottenuti solo dopo lunghe lotte[28].

Nuovi lessici ecologici e la crisi del “modello Brescia”

Occupazione scuola elementare Deledda a Chiesanuova a Brescia nel maggio 2013

Tra i principali meriti che vanno riconosciuti all’attività dei comitati va sicuramente segnalato il contributo dato nel ribaltare la narrazione sul “modello Brescia”. Per portare alla luce il problema dell’inquinamento del territorio e produrre prove a questo proposito, i soggetti appartenenti ai comitati sono ricorsi al parere di “esperti” (medici, avvocati, docenti universitari, studiosi, ecc.) e hanno costruito così un’imponente letteratura sullo stato del degrado ambientale in questo territorio. In questo senso, gli attori dei comitati hanno saputo interpretare il sapere scientifico come un campo di battaglia nel quale la produzione di evidenze scientifiche è da intendere anch’esso come il risultato di particolari relazioni di potere. Ossia, i protagonisti delle resistenze ambientali nel bresciano hanno preso consapevolezza riguardo al fatto che la scienza non può essere presa, semplicisticamente, come elemento super-partes nella risoluzione delle controversie ambientali. Questa fiducia indiscussa nel discorso tecnico-scientifico, invece, impregna gli atteggiamenti e i lessici dell’ambientalismo istituzionale italiano e rappresenta, in questo senso, un elemento di profonda compatibilità col progetto neoliberale di ristrutturazione del governo del territorio. Il neoliberismo crede infatti ciecamente nella capacità di modificare i limiti biofisici degli eco-sistemi attraverso il progresso tecnico scientifico. Queste considerazioni hanno come conseguenza principale i continui tentativi da parte sia delle istituzioni pubbliche, sia degli imprenditori privati del settore di spostare l’attenzione del discorso dall’ambito politico, nel quale sorge il conflitto ambientale, a quello tecnico-scientifico, nel quale l’apparente oggettività delle prove scientifiche garantirebbe la democraticità delle scelte e delle politiche da compiere e mettere in atto. Esempi del contrasto fra differenti visioni scientifiche possono essere riscontrati in ogni caso di conflitto su controversie ambientali registrabile nel contesto bresciano. Dalle discariche all’inceneritore lo scontro tra le diverse visioni dei vari portatori di interessi è alla luce del sole e la produzione di “prove” a sostegno delle proprie tesi è uno degli obbiettivi primari di ciascun attore della controversia. Emblematica in questo senso la battaglia che molti comitati hanno intrapreso contro l’ASL cittadina, accusata di “mascherare” la realtà dell’inquinamento e delle sue ricadute sullo stato di salute dei cittadini bresciani, in particolar modo per quel che riguarda il caso “Caffaro”[29]. Un’azione di mascheramento condotta, secondo la denuncia dei comitati, attraverso la diffusione di dati considerati falsati, mancanza di controlli, guide ai comportamenti ambigue, ecc. Così come, ad esempio, nella battaglia che ha portato alla luce la contaminazione di cromo esavalente di alcune falde dalle quali si approvvigiona l’acquedotto cittadino[30], il dibattito si è incentrato sulla natura arbitraria dei limiti di legge tollerati nella normativa italiana. Ma potrebbero essere elencati numerosi altri esempi.

Manifestazione Stop Biocidio Brescia 10 maggio 2014

Nelle recenti mobilitazioni ambientaliste sono riconoscibili nuovi linguaggi che fanno riferimento a diversi criteri di valutazione rispetto alle trasformazioni ambientali. Entrano in scena, così, nuovi universi valoriali non riconducibili alle valutazioni monetarie con le quali molti economisti hanno trattato i costi sociali[31] della crescita economica sull’ambiente. Il riferimento al “diritto al futuro” comparso sullo striscione d’apertura della manifestazione Basta Veleni riconduce direttamente ai diritti delle generazioni future, le quali sono di fatto escluse dal dibattito che ruota attorno alle trasformazioni definitive che le ristrutturazioni neoliberiste impongono al territorio. Sostanzialmente, i linguaggi dei conflitti ambientali nel bresciano cominciano a muoversi nel solco di rivendicazioni che non possono più essere ricondotte nelle logiche monetarie del mercato: i diritti delle nuove generazioni, la dignità della vita umana negata dalle nuove malattie collegate all’inquinamento, il valore ecologico degli ecosistemi, la semplificazione del paesaggio storico e, quindi, la perdita di sistemi agricoli legati alla “cultura agraria bresciana” sono tutti elementi che non possono essere semplificati e ridotti dentro la logica monetaria delle compensazioni. Ricondurre la pretesa che tutto possa essere “aggiustato” o, quantomeno, “compensato” al rango di un semplice esercizio di potere che semplifica la complessità del reale, apre nuovi spazi politici per i movimenti ambientalisti: “nessuno può detenere il potere di semplificare la complessità, scartando alcune prospettive e attribuendo peso solo ad alcuni punti di vista”[32]. L’emergere di questi nuovi linguaggi in seno ai conflitti ambientali bresciani va attribuito al protagonismo di alcuni soggetti, in particolare i gruppi di mamme. A loro il merito di avere trasformato la scuola in un campo di battaglia e spostato l’attenzione alla difesa dei diritti di chi verrà dopo. Non è un caso, quindi, che alcuni degli scontri più duri tra comitati e potere politico si siano generati attorno allo stato di salute del territorio nel quale alcuni edifici scolastici sono collocati: dalla bonifica dei giardini delle scuole comprese nel sito Caffaro alle esalazione che ciclicamente coinvolgono la scuola elementare di Vighizzolo a Montichiari[33], la difesa dei diritti di chi verrà dopo diventa centrale nelle contese legate alla conflittualità ambientale.

Occupazione ufficio direttore generale ASL di Brescia nell’aprile 2014

Tra gli elementi di novità, sempre guardando i cambiamenti che coinvolgono i linguaggi utilizzati dai comitati, sembra prendere corpo una critica serrata alle politiche partecipative portate avanti dalle istituzioni pubbliche e all’ambiguità nelle quali queste ultime sembrano muoversi. Per rispondere alla crescente conflittualità registrata negli ultimi anni, le politiche pubbliche, in linea con la crescente sfiducia verso le istituzioni[34], si sono orientate all’apertura di spazi partecipativi, già ampiamente utilizzati come strumenti nella pianificazione urbana, nei quali esponenti dei comitati e delle associazioni ambientaliste potessero prendere parola ed esprimere le proprie opinioni[35]. Fino a qui tutto bene, se non fosse che questi nuovi spazi partecipativi non sembrano avere la finalità di risolvere le questioni che generano il conflitto, ma, piuttosto, sembrano porsi come obbiettivo la delegittimazione e l’esclusione dalla contesa degli elementi più irriducibili e conflittuali. Spazi concertativi, quindi, piuttosto che spazi in cui venga garantita un’effettiva orizzontalità nelle decisioni da prendere. Come numerose analisi critiche hanno dimostrato, in realtà, l’apertura di queste arene deliberative è perfettamente in linea con l’affermazione di modelli di governance neoliberista[36]: ruolo fondamentale riconosciuto a questi dispositivi è la creazione di consenso attraverso la rimozione degli elementi di dissenso e la pacificazione dei conflitti, visti come un deterrente patologico per gli investimenti; l’obbiettivo è quindi delegittimare le posizioni più irriducibili e inconciliabili alle logiche del mercato, escludendole dai processi decisionali e marginalizzandole nel campo dell’irrazionalità o della patologia[37]. La possibilità a partecipare a queste arene viene decisa e gestita dall’alto e procede attraverso una selezione attenta dei partecipanti. È chiaro che questo processo selettivo privilegia alcuni stakeholder più influenti (membri di istituzioni pubbliche, imprese, università) e chi dimostra avere un’alta disponibilità al dialogo come le associazioni storiche ambientaliste, ovviamente trascurando ed escludendo chi difende posizioni non negoziabili come i comitati ambientalisti. È altresì evidente come, dentro questi cosiddetti spazi partecipativi, il linguaggio tecnico-scientifico è privilegiato sulle questioni più propriamente politiche, in linea con quanto descritto prima in quest’articolo.

Conclusioni

Corteo Basta Veleni 10 aprile 2016

I comitati che oggi si battono contro l’inquinamento e la devastazione ambientale del proprio territorio hanno aperto uno spazio politico nuovo e complesso. Sicuramente la loro diffusione si lega non solo ad un aumento dei carichi ambientali causato dalla crescita economica e dai suoi meccanismi, ma anche alla crisi di fiducia e legittimazione che, in generale, in tutti i paesi occidentali coinvolge sia le istituzioni democratiche sia le forme classiche della rappresentanza politica (partiti). In questa prospettiva, i comitati si pongono come una forma alternativa di partecipazione democratica e, pur partendo da questioni singolari e locali, hanno dimostrato di essere in grado di costruire generalità politiche[38]. La dimensione locale di queste resistenze deriva piuttosto dal fatto che il territorio torna ad essere centrale nel processo di accumulazione capitalista. Accumulazione (e quindi creazione di profitto) che, nel contesto economico bresciano, si lega alla capacità di questo territorio a modificarsi per accogliere rifiuti ed altre esternalità negative e, dunque, si lega alla sua capacità di “contaminarsi a buon mercato”. Quindi, le rivendicazioni e i lessici utilizzati, non solo nella costruzione della manifestazione Basta Veleni, ma in gran parte delle battaglie sulle tematiche ambientali condotte negli ultimi anni in territorio bresciano, contestano e riconoscono come prima causa di degrado ambientale il governo del territorio operato dalle istituzioni pubbliche. L’insieme delle politiche messe in atto da queste ultime per favorire la crescita economica è, come già detto, fortemente ispirato ai modelli neoliberisti ed ha assecondato le tendenze del mercato che prevedevano la creazione di un “distretto del rifiuto”. La responsabilità del modello neoliberista è probabilmente riconosciuta in maniera non del tutto consapevole, ma, sicuramente, obbiettivo di queste proteste sono proprio alcune peculiarità del contesto bresciano che permettono l’attrazione di flussi addirittura globali[39] di rifiuti e che, nell’ottica neoliberista, diventano peculiarità da tutelare e implementare per favorire la competitività di un dato territorio. Tornando su un piano generale, se dunque il mondo dei comitati è da intendersi in linea con le nuove forme di mobilitazione ecologica dal basso che scaturiscono da relazioni asimmetriche di potere, sappiamo che, come sottolineato abbondantemente dall’opera di Foucault[40], queste resistenze non riescono ad essere mai completamente esterne alla relazione di potere alla quale si contrappongono. Ma, condividendone le coordinate storico-geografiche, questi conflitti finiscono con riprodurne lessici, immaginari e forme.

Dunque, riprendendo un’efficace interrogativo, quale sarà la “posta in gioco”[41] per questi movimenti che chiedono maggiore giustizia ambientale e che riconoscono nell’attuale modello economico l’origine dei loro problemi? Evidentemente essa risiede nella capacità che gli attori di questi conflitti avranno nello “sporgere” (e quindi fuoriuscire) dalle forme e dai paradigmi imposti dal modello neoliberista contro i quali si trovano a combattere e nei quali, però, sono necessariamente invischiati. Alcuni di questi elementi di sporgenza sono stati menzionati prima e riguardano:

  • l’utilizzo dell’expertise e l’emergere di regimi di precauzione e incertezza nei confronti della ragione scientifica e nella fiducia che questa possa modificare a proprio piacimento i limiti fisici degli ecosistemi (il territorio è saturo e non è opportuno sovraccaricarlo ancora);
  • l’entrata in scena di linguaggi di valutazione basati sull’incommensurabilità dei valori in campo e profondamente diversi e lontani, quindi, dalle logiche della compensazione monetaria (chi vive questo territorio si fa portatore di costi generati da specifiche attività economiche private e dei quali si è fatto carico l’intero contesto socio-territoriale);
  • la critica ai processi partecipativi “ufficiali” e la sperimentazione di nuove pratiche di democrazia diretta (in contrasto con la rappresentazione egoistica, localistica e patologica del conflitto ambientale fatta dalle istituzioni pubbliche).
Corteo Basta Veleni 10 aprile 2016

Quindi, l’efficacia dell’azione dei comitati sembra coincidere con la loro capacità a non farsi “trovare là dove esso (il potere) attende, di modificare o invertire il senso degli elementi di cui esso si avvale”[42]. Una tensione dal forte carattere sperimentale che si basa, da un lato, dalla capacità di aggregare “nuove soggettività socio-politiche fortemente radicate a livello locale-territoriale, ma non per questo localistiche”[43]; dall’altro vuole riscrivere la propria relazione col territorio, non tanto come elemento fisico, ma bensì come elemento da vivere socialmente e come base materiale del proprio sostentamento. Si apre così la possibilità di uscire dalla costrizione culturale moderna, riduzionista e fortemente capitalista che il territorio sia un supporto inanimato di attività economiche, i cui limiti possono essere costantemente manipolati dalla scienza e dalla tecnica[44]. In questa tensione si possono leggere elementi che preludono ad un nuovo processo di riterritorializzazione imperniato sui concetti di sostenibilità e benessere. Le energie sociali liberate dalle pratiche di resistenza alle ricadute ambientali costituiscono una possibile base progettuale per ridefinire la relazione tra comunità locali e territorio. Ciò si dà nel momento in cui queste riescono a proporre usi alternativi e comunitari delle risorse naturali. Utilizzi che devono basarsi sul dialogo tra razionalità scientifica, particolarmente diffusa nelle società complesse post-industriali, e quei saperi locali nati dalle pratiche di cura e preservazione dei luoghi, anche di lungo corso. A questo proposito, per evitare equivoci attorno al concetto di comunità, è bene ribadire che:

“in un territorio abitato da molte culture, da cittadinanze plurali, è l’autoriconoscimento dei soggetti che si relazionano e si associano per la cura dei luoghi l’atto costituente di elementi di comunità; ovvero la comunità è una chance, non un dato storico riservato agli autoctoni, ma un progetto delle genti vive, degli abitanti di un luogo, che deriva dall’interazione solidale fra attori diversi in una società complessa, che sono in grado di reinterpretare l’anima del luogo per attivare nuove forme di produzione e consumo fondate sulla convivialità, la solidarietà e l’autosostenibilità”[45].

Concludendo, si può dire che Brescia rappresenta un caso emblematico di come i processi di accumulazione neoliberista si fondino su meccanismi “autodistruttivi”: il “benessere” economico bresciano non si basa quindi su elevati standard qualitativi di vita, ma, bensì, sulla sua capacità a “contaminarsi” per seguire le tendenze del mercato e le regole della competitività economica. Le ultime mobilitazioni ambientaliste nel bresciano si muovono dentro questa frattura, che rappresenta una crepa profonda nel progetto egemonico del neoliberismo. Cresce sempre più la distanza tra scelte economiche, ambientali, infrastrutturali operate dalle istituzioni pubbliche e la ricerca del “benessere” invocato dai soggetti di queste resistenze. Ciò fa si che, all’interno del territorio bresciano, si formino quasi quotidianamente coauguli di interessi sociali locali che provano a battersi, in varie forme, contro l’ideologia del mercato. Il mondo dei comitati ha aperto un importante spazio dove sperimentare forme di democrazia diretta: la sfida sarà come trasformare questi spazi partecipativi in strumenti di autogoverno, in grado di imporre un cambio radicale nella gestione delle risorse del territorio ad istituzioni pubbliche fortemente impregnate, a “destra” come a “sinistra”, di cultura neoliberista.

Note

[1] I giornali locali, il giorno dopo, parlano di record di partecipazione per una manifestazione a carattere ambientalista nel capoluogo bresciano (cfr. Corriere della sera Brescia, Giornale di Brescia e Bresciaoggi dell’11 aprile 2016)

[2] Harvey D., Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore Milano 2007, p. 3.

[3] Lonati G., Tra la cava e la discarica. Conflitti ambientali e forme di ecologismo popolare nel territorio bresciano, Dottorato di ricerca in pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio, ciclo XXVI, Università IUAV di Venezia 2014.

[4] Cfr. “La redistribuzione dei redditi nella provincia di Brescia”, scaricabile al link http://www.cdlbrescia.it/sito_cgil/public/file/APPROFONDIMENTI/2014redditi-brescia.pdf

[5] Ad esempio si consulti lo studio “Brescia e la crisi economica”, pubblicato nel 2011 dalla Camera di commercio e scaricabile al link http://www.cdlbrescia.it/sito_cgil/public/file/APPROFONDIMENTI/2014redditi-brescia.pdf

[6] Per approfondire la vicenda Caffaro si rimanda al libro di Marino Ruzzenenti, Un secolo di cloro e…PCB. Storie delle industrie Caffaro di Brescia, Jaca Book Milano 2001 e al sito http://www.ambientebrescia.it/.

[7]Secondo uno studio condotto dal Meteorological Synthesizing Centre-East Mosca nel 2006

[8]Naturale, ovviamente, secondo i criteri della razionalità neoliberista in contrasto con la natura “geologica” permeabile dei terreni ghiaiosi della pianura bresciana.

[9] D.P.R. del 10 settembre 1982, n. 915

[10] Lonati G., op. cit.

[11] La vicenda che rigurda a2a è emblematica. Dalla fusione delle due aziende ex-municipalizzate ASM di Brescia e AEM di Milano è nato un colosso che oggi opera investimenti nel campo energetico su scala nazionale ed europea.

[12] Art. 38 LR/98

[13] Cfr. Corriere della sera Brescia del 9 ottobre 2014 e del 11 febbraio 2015;

[14] I rifiuti urbani prodotti nel 2014 in tutta la provincia di Brescia e finiti nell’inceneritore sono 229 mila tonnellate (fonte: Osservatorio provinciale rifiuti).

[15] La percentuale della raccolta differenziata a Brescia sempre per il 2015 è ferma al 37,65% rispetto al 57% della media regionale.

[16] RMB, un’azienda bresciana specializzata nel trattamento delle ceneri pesanti degli inceneritori italiani, è passata da un fatturato di 30 milioni di euro nel 2008 a 100 milioni nel 2013, grazie anche ad appalti vinti con a2a per il trattamento delle ceneri prodotte nei suoi impianti.

[17] Cfr. Ruzzenenti M., “Il problema rifiuti. Discarica o <<termovalorizzazione>>, una falsa alternativa”, relazione presentata al convegno Scienza e Democrazia 4, Napoli 15-17 Maggio 2008 (http://www.ambientebrescia.it/inceneritoreAsm.html)

[18] Cfr. Martinez Alier J., Ecologia dei poveri, Roma Jaca Book 2009

[19] Lonati G., op. cit., p 143

[20] Cfr. Ibidem, pp. 109-114

[21] Cfr. Pedrocco G., Bresciani dal rottame al tondino, Milano, Jaca Book 2000.

[22] Contro l’inceneritore Montecno a Montichiari nel 1991 e contro l’inceneritore di ASM nel 1993 (cfr. Lonati G., op. cit., p. 147

[23] Cfr. Della Porta D., Movimenti senza protesta? L’ambientalismo in Italia, Bologna Il Mulino, 2004

[24] Cfr. Lonati G., op. cit., pp. 259-268.

[25] Cfr. Ibidem, pp. 148-149.

[26] Cfr. Ibidem, pp. 149-150.

[27] Si, va dalle marce contro il progetto Tav Brescia-Verona a quella contro il nuovo depuratore di Visano (BS). Fino ad arrivare all’enorme manifestazione che ha attraversato il piccolo paese di Berlingo nella zona occidentale della provincia di Brescia, a sostegno della protesta contro il progetto della discarica Macogna.

[28] Ad esempio, per ottenere la bonifica dei giardini pubblici si è passati dall’occupazione di diversi assessorati del Comune di Brescia, fino all’occupazione della stessa scuola elementare “Deledda”, con la cacciata dell’allora assessore all’ecologia.

[29] Contrasto che ha portato anche a gesti eclatanti con l’occupazione simbolica nel 2014 dell’ufficio del direttore generale del ASL di Brescia da parte di alcuni comitati, la richiesta delle sue dimissioni e numerosi esposti presentati alla procura per denunciare le omissioni e le responsabilità dell’azienda sanitaria locale nel non fornire una corretta informazione .(cfr. http://www.ambientebrescia.it/Caffaro2014.html).

[30] Cfr. Corriere della Sera Brescia del 23 Marzo 2015.

[31] Per un approfondimento riguardo a questo tema si rimanda all’opera di un economista inglese, non ancora tradotta in italiano, Kapp William K., The social costs of business enterprise, Spokesman 1963 e all’articolo pubblicato nel numero precedente di Gaia (Meini S. Costi sociali. Cosa sono e a cosa servono. Su https://www.alternativeaps.org/278-278/)

[32] Cfr. Martinez-Alìer J., Ecologia dei poveri, Jaca Book Milano 2009, p. 221

[33] Montichiari è la “capitale” del distretto del rifiuto bresciano con ben 17 discariche presenti. Vighizzolo è la frazione simbolo dove lo scorso autunno alcuni alunni sono stati ricoverati per malori ricollegabili alle attività di trattamento rifiuti.

[34] Cfr. Rosanvallon P., La politica nell’era della sfiducia, Troina Città aperta 2006

[35] In questa prospettiva va letta l’istituzione degli osservatori da parte dell’attuale amministrazione comunale (osservatorio termo utilizzatore, osservatorio aria bene comune, osservatorio Alfa Acciai, osservatorio acqua bene comune, ecc. cfr.  http://www.comune.brescia.it/servizi/ambienteeverde/Ambiente/Pagine/Osservatori.aspx)

[36] Cfr. Silver H., Scott A., Kazepov Y., Participation in Urban Contention and Deliberation. In International Journal of Urban and Regional Research 34 2010, 3, pp. 453-477

[37] Cfr. Pellizzoni L., Ylönen M., Hegemonic contingencies: neoliberalized technoscience and neorationality. In: Pellizzoni L., Ylönen M. [a cura di] Neoliberalism and Technoscience. Critical Assessments, Farnham, Ashgate 2012, pp. 47-74

[38] Cfr. Caruso L., Il territorio della politica. La nuova partecipazione di massa nei movimenti No Tav e No Dal Molin. Milano, Franco Angeli 2010.

[39] Il caso delle scorie ritrovate all’ex – Selca di Berzo Demo, piccolo paese della Valle Camonica, è particolarmente significativo. Nell’impianto sono ferme da anni migliaia di tonnellate di rifiuti contenenti cianuro, fluoruri e metalli pesanti (piombo, nichel, ecc. ) provenienti dall’Australia (cfr. http://www.laterradisotto.it/forno-allione-brescia/). Storia simile anche quella delle scorie contaminate al Cesio 137 arrivate nelle acciaierie bresciane dall’ex Unione Sovietica e disseminate nella provincia (cfr. ad esempio http://www.laterradisotto.it/discarica-metalli-capra-capriano-del-colle/)

[40] Foucault M., La volontà di sapere, Milano Feltrinelli, 1978

[41] Cfr. Pellizzoni L., La posta in gioco, in Fregolent L. (a cura di) Conflitti e territorio. Milano, Franco Angeli 2013

[42] Ibidem, p. 1.

[43] Cfr. Lonati G., op. cit., p. 62

[44] Cfr. Magnaghi A. (a cura di), Rappresentare i luoghi, Firenze Alinea Editrice, 2001

[45] Magnaghi A., Dalla partecipazione all’autogoverno della comunità locale: verso il federalismo municipale solidale in Democrazia e diritto, n. 3, Franco Angeli 2006.

BIBLIOGRAFIA

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