Alpi Apuane: storie di resistenza tra montagne private, vette imbiancate (non per la neve) e malamministrazione

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Pubblichiamo volentieri questo contributo che tratta i conflitti ambientali sorti attorno alle attività estrattive legate alla produzione del famosissimo marmo di Carrara. L’articolo approfondisce alcune tematiche comuni a molti conflitti ambientali come la dicotomia salute-lavoro, il ruolo assunto dalla tecnologia e l’emergere di nuove forme di conflittualità sociale legate ai temi ambientali. Un ulteriore interesse lo suscita il fatto che, nella provincia bresciana, seppur la maggior parte delle attività di cava si lega all’estrazione di ghiaia e sabbia, è presente il secondo bacino italiano per importanza per l’escavazione di pietre ornamentali, per l’estrazione del marmo di Botticino. Un distretto economico, quest’ultimo, che oggi vive una fase di transizione segnata da crisi economica, gravi incidenti e profonde riorganizzazioni, con la possibilità che, per la prima volta, grosse aziende multinazionali possano mettere le mani sulle concessioni per le attività estrattive (Ass. AlterNative).>

A partire dagli anni ’90 le dinamiche dei territori sono divenute centrali nel definire il conflitto sociale in Italia, ecorteo non solo. Da un lato l’economia neoliberista ha dato un’ulteriore spinta alla sfrenata competizione globale che ha fatto dei territori e delle comunità che vi vivono le prime vittime da sacrificare in nome del profitto, travestito da progresso. Dall’altro, in una generale crisi della rappresentanza, è cresciuta la sfiducia nei confronti dei classici canali istituzionali e nei partiti politici, con la propensione a mobilitarsi in modo diretto a livello locale.

Sotto la bandiera del progresso, elevato a valore universale e neutrale, i poteri economici con la connivenza e talvolta complicità delle istituzioni hanno dato il via ad un processo di mercificazione delle risorse senza precedenti. Così le comunità hanno visto progettare e costruire nelle loro terre inceneritori, imponenti infrastutture, grandi eventi, installazioni militari, hanno visto interrare rifiuti, privatizzare le proprie risorse, cementificare, inquinare, devastare e saccheggiare i loro territori. Hanno visto costruire dispositivi di morte laddove vi era vita. Alle politiche calate dall’alto dalle istituzioni e dagli interessi forti le comunità si sono opposte, autorganizzandosi in difesa dei territori. Si è venuto a delineare nel corso del tempo un conflitto tra due modi radicalmente differenti di pensare al territorio, alla sua gestione e organizzazione, quello che più comunemente chiamiamo conflitto ambientale. I movimenti di resistenza popolare nei territori rappresentano un fenomeno piuttosto recente e altresì nuovo, sia rispetto a quelle che sono le rivendicazioni e valori in cui si identifica sia per quelli che sono i mezzi di cui si dota per finalizzare i propri obiettivi. Spostandosi verso rivendicazioni postmaterialiste riconducibili al discorso della qualità della vita, essi sono finiti con l’inglobare una serie di problematiche e lotte che con la qualità della vita di una comunità interagiscono sensibilmente e tra le quali non possono mancare variabili prettamente materialiste. In questo senso, cioè per la capacità di intrecciare sullo stesso piano più lotte, rappresentano a mio avviso un elemento di novità rispetto al mondo dei movimenti sociali all’interno dei quali hanno guadagnato un forte protagonismo.

Ciò che abbiamo imparato dalle esperienze di questi anni è che, dalla Val Susa a Niscemi, lottare in difesa del proprio territorio significa lottare per un modello di relazioni sociali, economiche e politiche alternative, basate su valori solidaristici e non di competitività, di inclusività e non di esclusione, di riconoscimento delle, e nelle, identità territoriali e che trova nella partecipazione diretta e attiva la propria ragion d’essere. Significa riconoscere nella propria terra non una merce ma un bene comune da preservare, da gestire collettivamente sperimentando modelli orizzontali e partecipativi, in rifiuto a gerarchie e verticismi.

Natura da vendere vs. Natura da difendere. Il caso delle Alpi Apuane

La questione relativa all’escavazione di marmo nelle Apuane rappresenta sicuramente un caso peculiare nell’ambito dei conflitti ambientali. Emblematico dell’assurdità che si consuma su queste montagne è il fatto che il sistema delle concessioni sia stato regolato, fino alla legge regionale 35 del 2015, dall’editto di Maria Teresa Cybo Malaspina del 1751 (duchessa di Massa e principessa di Carrara) che prevedeva la “concessione perpetua” per coloro che avessero registrato il possesso di una cava di marmo per almeno 20 anni. In sostanza si riconosceva la natura di bene privato delle cave, cioè della montagna. Sebbene la recente legge regionale avrebbe dovuto porre fine a questo regime di concessioni riconoscendo le cave come beni estimabili del Comune, il Tribunale di Massa negli ultimi giorni del marzo 2016 ha accettato il ricorso presentato dalle aziende del marmo che rivendicavano la proprietà sulle cave, e ha sollevato dubbi di legittimità sulla legge regionale che dovrà infine essere risolta dalla Corte Costituzionale. Ciò che si legge tra le righe è lo schiacciante potere di cui godono le imprese lapidee nei confronti delle istituzioni.

Tecnologie intensive, qualche numero.

cave=paneAl di fuori del quadro normativo, la questione dell’escavazione è indissolubilmente legata ad una serie di problematiche di natura ambientale, sociale ed economica. Essere padroni delle cave significa essere padroni della gestione e della sicurezza di un territorio caratteristico e fragile come quello che connota le Apuane. L’escavazione del marmo infatti rappresenta un’attività fortemente impattante per il territorio e la comunità, sebbene sia stata a lungo percepita da quest’ultima (e in gran parte ciò avviene ancora) come parte dell’identità e tradizione di Carrara e perciò indiscutibile. Le innovazioni introdotte in ambito tecnologico hanno causato una radicale trasformazione dell’attività estrattiva negli ultimi cinquant’anni, che ha conosciuto ritmi tali da estrarre in pochi decenni più marmo di quanto se ne fosse mai estratto in due secoli. Un rapporto di Legambiente Carrara pubblicato recentemente mostra la differenza di materiale estratto tra il 1950 e il 2005: si passa dalle 200.000 tonnellate a 1.200.000 tonnellate l’anno. Dati aggiornati all’anno 2013 parlano di 4.000.000 di tonnellate di marmo estratte all’anno (Camera di Commercio di Massa-Carrara). Più che i blocchi di marmo sono le scaglie da cui deriva il bicarbonato di calcio a rappresentare il grande business per le aziende lapidee.

Se quindi da un lato tecnologia è sinonimo di escavazione intensiva, l’altra faccia della medaglia è inevitabilmente il crollo degli occupati nel settore, un settore, quello del marmo, che era stato in grado effettivamente di nutrire la città di Carrara. Oggi nelle cave trovano lavoro poco meno di 900 persone per le quali il tema dell’escavazione del marmo è intoccabile. Il rapporto tra cavatori e ambientalisti è piuttosto conflittuale: a riguardo è emblematico lo slogan dei cavatori “cave=pane ambientalisti=fame”. Questo ci riconduce ad un dramma ricorrente delle nostre esistenze: quello di dover scegliere tra il lavoro e la salute. Un’eterna contraddizione della nostra società che ci chiede se preferiamo morire di lavoro o morire di fame. Un ricatto che mette spesso in contrasto frammenti di una società vittime dello stesso disegno di sfruttamento.

Tecnologie intensive e natura

Escavazione intensiva significa devastazione ambientale, un binomio imprescindibile di questo modellofrigido economico. Difatti, oltre al danneggiamento irreversibile di un ecosistema e paesaggio caratteristico come quello apuano, la selvaggia attività estrattiva minaccia una risorsa primaria per la vita: l’acqua. Infatti da una parte il taglio della montagna produce delle polveri note con il nome di marmettola, che si insinuano nei corsi d’acqua inquinandole e cementificando le falde acquifere. I costi di depurazione delle nocività prodotte dall’attività delle aziende pesano interamente sulle spalle della comunità. Dall’altra i detriti di marmo si accumulano formando i ravaneti che finendo nel fiume lo ostruiscono, causando ripetute alluvioni. Infine vi è la problematica legata al trasporto del marmo su camion che rilasciando polveri sottili PM10 è causa di gravi malattie respiratorie. Ai costi qui citati in termine di ambiente e di salute si aggiungono i costi economici e sociali derivanti dall’escavazione del marmo. La realizzazione nel 2012 della strada dei marmi, finalizzata a spostare i trasporti dal centro città, ha reso il Comune, principale finanziatore dell’opera, uno dei Comuni più indebitati d’Italia. Pur trattandosi di un’opera a esclusivo beneficio delle aziende del marmo, quest’ultime hanno rifiutato di contribuire al finanziamento e altresì al pagamento di un pedaggio minimo. Sappiamo bene che indebitamento significa ulteriore smantellamento dello stato sociale, da contestualizzare in una città come Carrara con un elevetissimo tasso di disoccupazione giovanile, aggravato dalla mancanza di luoghi di socializzazione e di aggregazione.

5 novembre 2014. L’inizio di una nuova stagione di lotta per Carrara

8novembreLa protesta nata a seguito dell’alluvione del 5 novembre 2014, la quarta nel giro di dieci anni, ha immediatamente risollevato l’attenzione sulla questione del dissesto ambientale con un occhio di riguardo per la problematica delle cave. Da quel giorno non è più stato possibile far finta di niente, non è più stato possibile voltare le spalle davanti a questa distruzione, non è più stato possibile fingere di non vedere quella montagna, così devastata, svuotata, svilitaLei ha trovato il modo di farsi vedere, di farsi sentire, di costringerci ad ascoltare. E lo ha fatto di nuovo pochi giorni fa, il 14 aprile 2016, quando un pezzo di cava è crollato giù, e 2.000 tonnellate di marmo hanno spezzato per sempre l’esistenza di due uomini, due cavatori. E se non è più stato possibile ignorare l’urlo di questa montagna, non è più stato altrettanto possibile ignorare i responsabili di questo disastro, a cui la comunità ha deciso di presentare il conto. Pochi giorni dopo l’alluvione, l‘8 novembre, migliaia di cittadini, di differente estrazione sociale e politica, riuniti davanti al Comune chiedono, anzi pretendono, le dimissioni del sindaco Angelo Zubbani e della giunta. Il diniego da parte di Zubbani delle proprie responsabilità suscita la reazione dei carrarini che decidono di irrompere nella sala comunale e dar vita ad un’assemblea di cittadini. Al termine dell’assemblea si decide di portare avanti l’occupazione della sala comunale e dar vita all’Assemblea Permanente di Carrara (un nome che ci riconduce all’esperienza dell‘Assemblea Permamente contro la Farmoplant nata negli anni Ottanta a Massa-Carrara). L’occupazione proseguirà per circa due mesi (rappresentando un evento unico nel suo genere), durante i quali l’Assemblea Permanente si porrà in forte conflittualità con l’amministrazione da loro definita sorda, e rifiuterà le varie proposte della giunta di abbandonare la sala comunale in cambio di un altro spazio. La ricerca di un compromesso da parte dell’amministrazione mostra la forza della resistenza carrarina. Una forza, quella della comunità riunita, che torna a manifestarsi alla richiesta di Zubbani di parlare con una delegazione dell’Assemblea. Richiesta rifiutata e invito rilanciato in nuovi termini; noi non deleghiamo più, noi non mandiamo nessuno in rappresentanza delle nostre istanze, se Zubbani vuole il dialogo che venga a parlare nella sala comunale dinanzi a tutta l’Assemblea. Al dialogo con tutta la comunità Zubbani preferirà le maniere dure, mandando la questura, all’alba del 27 gennaio, a sgomberare gli occupanti, da quello che poi dovrebbe essere un loro spazio. L’amministrazione preferirà trattare la rivendicazione politica dell’Assemblea Permanente, che guadaganava sempre più forza e legittimità, come una mera questione di ordine pubblico. Nonostante lo sgombero l’Assemblea Permanente prosegue la propria lotta, come dichiarato nel comunicato del 29 gennaio, due giorni dopo lo sgombero:

“La passione e l’amore per ciò che facciamo d’ora in avanti ci guideranno, senza sosta e con fermezza, nel controllo delle amministrazioni, presenti e prossime, e nella ricerca, idealistica ma soprattutto concreta, di una città e un futuro migliori, in un vivo senso di benessere comune, partecipazione e attivo interesse.

Vi sarebbe molto da dire su questa esperienza di resistenza, di riappropriazione degli spazi e dei processi deliberativi sul territorio. Una lotta per riappropriarsi della prerogativa di pensare in modo diverso a quei territori, rifiutando la narrazione tossica dominante che vuole proporre, o meglio imporre, l’idea che ogni territorio abbia una propria vocazione (guarda caso quella che meglio si concilia con determinati interessi economici). Un’esperienza in grado di ricreare aggregazione e senso di comunità in un contesto sociale di grande alienazione e disgregazione. Sarebbe necessario ripercorrere ogni giorno, ogni assemblea, ogni corteo, sit-in, ogni momento di scontro con l’amministrazione ed ogni momento di incontro con la città per far capire l’essenza e l’autenticità di questa lotta. Non è possibile raccontare tutto ciò in un articolo senza omettere tutta una serie di dettagli e precisazioni che ne comprometterebbero l’attendibilità. Perciò preferisco lasciare l’approfondimento di questa esperienza e delle dinamiche della città ad altre occasioni.

Quale percorso e quali prospettive per la nostra lotta?

Quel 5 novembre lo spirito partigiano di Carrara è riemerso con tutta la sua forza, segnando un volta pagina per la comunità che dopo decenni è tornata a riprendersi il proprio protagonismo ponendo l’imperativo della partecipazione attiva sul territorio. Ogni percorso di resistenza matura in modi differenti in base alle condizioni nelle quali si contestualizza, in base alla propria storia, ai propri assemblea in comunebisogni, alle necessità di quello specifico territorio. È però necessario che ogni lotta sia guidata da una critica radicale al modello economico e politico che di questo dissesto ambientale sono responsabili, onde evitare di finire in nuove contraddizioni. Dobbiamo inevitabilmente porci dinanzi a degli interrogativi. Chi è responsabile di questo dissesto? Solo le imprese del marmo o è forse necessario interrogarsi sul modello economico che basandosi sulla competizione e il profitto altro non può generare che sfruttamento selvaggio di ogni risorsa, naturale e umana, fino alla sua distruzione? È responsabile solo l’amministrazione comunale o è da mettere in discussione anche il sistema rappresentativo che ha permesso alle istituzioni di decidere senza la comunità, depauperata non solo del proprio diritto (mi riferisco ad un diritto connaturato nella comunità e non in senso giuridico) a decidere sul proprio territorio ma anche della possibilità di sanzionare a posteriori (per quanto comunque non sufficiente) i propri delegati per le responsabilità in tema di dissesto ambientale?

Su queste domande si gioca la nostra possibilità di realizzare un cambiamento reale, che parta dal basso e affondi le proprie radici nella gestione diretta, decentrata ed ecologica dei territori. Non possiamo affidare questa sfida in altre mani, non possiamo delegare questo compito a delle istituzioni schiacciate sulle posizioni dei poteri economici, tanto meno lasciare che siano le stesse imprese responsabili di crimini umani e ambientali a farsi portavoce di istanze verdi come abbiamo visto con Expo (vedi McDonald’s, CocaCola, Selex gruppo Finmeccanica, Enel, Eni, Henraux che opera nel settore del marmo nelle Apuane, ecc..) o piegarci al sempre più dilagante atteggiamento scientista che vuole proporre soluzioni tecnologiche a problemi ecologici. A prescindere dagli infiniti ostacoli che incontreremo questo cambiamento radicale solo da noi può e deve prendere vita.

“I folli aprono le strade che poi i prudenti seguiranno.”

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