Biocidio: soggetti e paradigmi sottotraccia in Europa

0
1805
views
Biocidio

Sharing is caring!

di Salvatore Altiero, Associazione A Sud (articolo pubblicato su Ecologia Politica nel maggio 2014 come approfondimento del lavoro pubblicato sulla rivista “Gli asini”, n. 20, marzo-aprile 2014, qui l’originale).

Proponiamo questo articolo che introduce il concetto di biocidio. Si tratta, innanzitutto, di una parola che ha assunto negli ultimi anni un ruolo centrale nelle lotte ambientali della Campania e, in seguito, nel resto d’Italia. Rappresenta una chiave di lettura che permette di mettere a nudo con chiarezza la relazione storica tra il modello di sfruttamento capitalistico delle risorse naturali e l’emergere di criticità legate ai rischi sanitari e all’inquinamento, alla mancanza di democrazia vissuta dalle comunità locali nelle decisioni che riguardano la gestione del territorio, al dominio dell’industrializzazione selvaggia a scapito di forme economiche alternative maggiormente sostenibili. In poche parole biocidio rappresenta il venir meno delle condizioni basilari alla vita, sacrificate sull’altare del modello economico capitalista e neoliberista.

Rispetto alla stratificazione sociale di epoche passate fondate su diseguaglianze giuridiche o politiche, l’odierna gerarchia tra settori sociali più o meno svantaggiati si fonda sulla relazione competitiva tra individui formalmente liberi e uguali.

Ciò avviene all’interno di una cornice di relazioni in cui la proprietà si erge ad unica espressione di libertà e potere. Relazione e scambio sociale sono pressoché totalmente assunti all’interno del mercato e del consumo e la natura è considerata materia prima e non risorsa essenziale alla vita, cosicché la sua preservazione sembra orientata a non alterare il modello di sviluppo più che alla costituzione di una comunità ecologica, in cui uomo e ambiente siano soggetti di un rapporto armonico e non predatorio. Pur sottotraccia, l’esigenza di ragionare sui paradigmi assenti di un sistema così impostato, e la loro narrazione portano a individuarne chiaramente alcuni: condivisione, economia locale, solidarietà, autogestione delle risorse, democrazia diretta. Se è così, le comunità rappresentano i soggetti attivi di questi paradigmi, anch’essi assenti negli assetti sociali dominanti, in cui Stato e Mercato esauriscono l’oligopolio dell’organizzazione sociale.

La crisi del sistema dominante è evidente, uno sforzo va fatto però nella corretta individuazione delle cause, visto che, allo stato attuale e secondo dinamiche perverse, le politiche attuate per superare la crisi hanno avuto come effetto la radicalizzazione delle sue cause e l’inasprimento delle sue conseguenze; le prime, ad esempio, in termini di monetarizzazione della natura e finanziarizzazione dell’economia; tra le conseguenze, lo sgretolarsi delle istituzioni  “democratiche” e l’involuzione dei già difficoltosi percorsi verso la partecipazione popolare.

Se parliamo oggi di crisi economica e sociale in Europa è perché, a fronte dell’accelerazione impressa ai processi di accumulazione in un contesto già saturo dal punto di vista della concentrazione delle risorse economiche e dell’accesso a quelle naturali, non è più possibile scaricare le esternalità negative dell’attuale modello di sviluppo altrove o in casa propria, su territori e comunità ritenute sacrificabili. Declinare al singolare la crisi, intendendone l’aspetto economico e, nella migliore delle ipotesi, la sua connessione con quello sociale, porta a rimanere ingabbiati nell’immaginario  di un’idea di sviluppo, che ha veicolato nella possibilità della crescita economico-produttiva illimitata l’unica prospettiva in grado di assicurare un’adeguata e crescente qualità della vita, mentre  permangono in ogni luogo dei “ Sud” a dimostrazione del fatto che, in questo modello e su scala planetaria, esistono inaccettabili squilibri, articolati per aree geografiche e comunità a diverso grado interessate da fenomeni di sfruttamento.

Il risultato è (dati Oxfam, rapporto di ricerca Working for The Few) una concentrazione di risorse tale per cui 85 individui possiedono l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale, 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza è aumentata negli ultimi trent’anni e l’1% delle famiglie possiede il 46% della ricchezza globale (110.000 miliardi dollari). Eppure siamo tutti uguali.

La crisi ambientale

Il miglioramento delle condizioni economiche generali nell’ultimo mezzo secolo ha permesso nei paesi “sviluppati” il consolidamento di lotte sociali al di fuori dell’ambito economico, incentrate sulla critica del capitalismo come sistema incapace di garantire beni extra-economici quali la preservazione ecologica del pianeta e, in connessione con essa, la salute e il buen vivir, rivendicati per tutti e non per una parte. È insomma divenuta consapevolezza diffusa l’insufficienza del parametro economico-reddituale come misuratore della qualità della vita.

A fronte di ciò, nell’applicazione delle teorie neoliberiste la deregolamentazione economica ha toccato il suo punto massimo. I processi di finanziarizzazione sono espressione di tale deregolamentazione che da economica diviene ambientale, cioè mancato rispetto del limite ecologico del sistema produttivo, quando la speculazione finanziaria serve ad attirare capitali verso attività produttive, che per massimizzare i profitti devastano l’ambiente oppure mercificano risorse comuni. Pensiamo alla privatizzazione di risorse essenziali per la vita come l’acqua, alla base di diritti da tutelare, trasformate in merce; al sacrificio dei territori alle esigenze dei processi di industrializzazione forzata e allo smaltimento dei rifiuti industriali, intendendo per rifiuto ogni emissione sregolata dei processi produttivi nelle matrici ambientali (acqua, suolo, sottosuolo e aria); all’impatto localizzato dell’estrattivismo energetico su alcuni territori.

In questi processi, sfruttamento della natura e del lavoro e sottrazione di risorse a territori e comunità convergono, traducendosi inevitabilmente in compressione degli spazi democratici, essendo ogni forma di sfruttamento e deprivazione imponibile solo in un quadro di forzature verticistiche delle decisioni politiche. Il modello produttivo attuale ha quindi utilizzato lavoro e natura come combustibili, riuscendo a garantire solo limitatamente, e ormai non più, i diritti del lavoro, ma in nessun modo arginando gli impatti distruttivi sulla natura. La diseguaglianza sociale prodotta si associa così all’emergere di forme di ingiustizia ambientale connesse all’iniqua distribuzione su determinate comunità e fasce sociali dei rischi connessi al modello di sviluppo; con l’emergere dirompente del limite ecologico, si sta realizzando dunque un passaggio: a fianco della compressione dei diritti del lavoro, si chiede all’individuo di rinunciare alla stessa aspettativa di vita in buone condizioni fisiche, esponendo la salute all’impatto ambientale dell’economia industriale.

L’integrità e salubrità delle matrici ambientali (aria, acqua, suolo e sottosuolo) è la risorsa comune originaria, da cui dipendono salute, qualità della vita e possibilità di sostentamento garantite da un accesso diffuso ed equilibrato, rispettoso del principio di responsabilità intergenerazionale. La messa a profitto dei territori attraverso processi di estrazione, accaparramento ed erosione della risorsa da un lato e diffusione di emissioni contaminanti, dall’altro, secondo dinamiche di monetarizzazione dell’ambiente tendenti alla massimizzazione individuale-deprivazione comune e restrizione dell’accesso, comporta di per sé un sistema impossibilitato al rispetto del limite ecologico perché svincolato dal comune interesse alla preservazione della e all’accesso alla risorsa che agirebbe da controllo e gestione sociale dell’ambiente. Si determinano così processi di deterioramento costante delle matrici ambientali a vantaggio di un ritorno economico per pochi individui, limitato nel tempo e geograficamente.

Occorre dunque un’analisi plurale che individui non la crisi ma le crisi: economica, sociale, democratica e ambientale, partendo da quest’ultima e risalendo alle connessioni che la legano alle altre all’interno di un filo che unisce i casi, i territori e le comunità dei conflitti ambientali in cui convergono aspetti sociali, economici e democratici, questi ultimi intesi come negazione di forme di partecipazione e autogestione nelle decisioni riguardanti l’utilizzo del territorio nelle sue componenti ambientali, storiche, sociali ed economiche determinate dal vissuto non eterodiretto delle popolazioni.

Biocidio: il linguaggio dell’insostenibilità

Il produttivismo capitalistico e la finanziarizzazione generano potere economico e sfruttamento in un sistema che appare impossibile da scardinare se lo si affronta, appunto, lì dove è più forte: il piano dell’economia e di assetti economico-finanziari consolidati e oggi agenti attraverso il ricatto del debito. Al contrario, sempre meno eludibile è l’effetto implosivo determinato dal superamento del limite ecologico. L’impossibilità di continuare a consumare ambiente senza mettere a repentaglio la vita e l’accesso comune alle risorse da cui deriva la sopravvivenza di ognuno mette in crisi il capitale dal punto di vista del sistema produttivo, economico, sociale e politico. Se il modello attuale si fonda su assetti di potere e stratificazioni sociali di tipo economico, le lotte ambientali hanno potenzialità interclassista e ricompositiva perché connesse alla vita stessa. Non a caso è stata la gestione delle risorse ambientali nel passato e ancora oggi ad aver espresso e a esprimere forme di accesso, uso e conservazione che costituiscono un modello alternativo, dei beni comuni, delle proprietà collettive, delle comunità che decidono al di fuori di meccanismi di delega.

Specchio di una visione e di una volontà tutte comprese nell’immutabilità e persistenza del sistema produttivo attuale, politica ed economia si sono dotate di un “linguaggio della sostenibilità” volto a dimostrarne la perfettibilità ma non hanno fatto proprio un vocabolario dell’“insostenibilità cronica” che serva a mettere in luce le criticità sintomatiche di limiti impossibili da superare se non a costo dell’autodistruzione.

Il linguaggio dell’insostenibilità è stato invece delegato a chi ne subisce gli effetti. La parola “biocidio” in Campania ha assunto centralità nella lotta delle comunità contro la messa a profitto dei territori e l’impatto sulla salute subito dalle popolazioni residenti a causa di una gestione criminale del territorio utilizzato come discarica di rifiuti urbani e industriali.

La presa di coscienza dei danni alla salute conseguenti ha dato vita ad un movimento di proposta alternativa ad un quadro fatto di sfruttamento delle risorse ambientali, azzeramento dei costi di smaltimento degli scarti di produzione, incidenza drammatica sulla qualità della vita delle popolazioni residenti. Andando più a fondo, biocidio non è soltanto espressione della connessione tra danno all’ambiente e danno alla salute legati allo smaltimento dei rifiuti, bensì la rilettura dei conflitti ambientali nel loro connettersi alla struttura sociale, politica ed economica dei rapporti di produzione. Il capitale e il produttivismo, utilizzando l’ambiente come combustibile, hanno dato vita a criticità che sì mettono a rischio la vita in buone condizioni fisiche ma producono effetti ulteriori: esclusione delle popolazioni dalle decisioni che riguardano la gestione del territorio, sottrazione di risorse ambientali irreversibilmente compromesse, imposizione di un determinato sistema economico dannoso per l’ambiente a scapito di forme di economia con esso più sintoniche – pensiamo all’agricoltura e alla qualità della produzione alimentare messe a rischio dai fenomeni sopra citati  ̶ , cancellazione di una struttura economica e sociale frutto dell’interazione armonica tra comunità e territorio sacrificati a processi di industrializzazione forzata. Biocidio è tutto questo, in quanto fenomeno incidente negativamente sulla vita in ogni suo aspetto.

La mappa del biocidio

In Italia, l’evidenza epidemiologica relativa all’associazione tra impatto ambientale e salute in termini di  incidenza di alcune malattie o aumento della mortalità è stata analizzata in 44 dei Siti di interesse nazionale per le bonifiche dallo studio SENTIERI del Ministero della salute. Il d.lgs. n. 152/2006 individua le aree da inserire tra i “siti di bonifica di interesse nazionale” (SIN) sulla base di criteri di ordine sanitario, ambientale e sociale. Grandi centri industriali attivi o dismessi e aree oggetto di smaltimento di rifiuti industriali e/o pericolosi inseriti nel “Programma nazionale di bonifica”.

Nel rapporto del Ministero della Salute l’elenco dei Comuni campani è lunghissimo: nell’aria di Caserta e Napoli, litorale domizio-flegreo e agro aversano, figurano più di 50 comuni; citarne solo alcuni può essere utile ad avere un’idea del disastro di questa terra: Acerra, Aversa, Caivano, Casal di Principe, Casapesenna, Caserta, Maddaloni, Marcianise, Mariglianella, Marigliano, Melito di Napoli, Mondragone, Monte di Procida, Orta di Atella, Pozzuoli, San Tammaro, Santa Maria Capua Vetere, Santa Maria la Fossa, Boscoreale, Boscotrecase, Castellammare di Stabia, Ercolano, Napoli, Pompei, Portici, San Giorgio a Cremano, Terzigno, Torre Annunziata, Torre del Greco e Trecase. Qui, si legge nel rapporto, «Il Decreto di perimetrazione del SIN elenca la presenza di discariche. Nel SIN sono stati osservati eccessi della mortalità in entrambi i generi per tutti i principali gruppi di cause, con eccessi di mortalità per il tumore polmonare, epatico e gastrico, del rene e della vescica. I risultati hanno, anche, mostrato un trend di rischio in eccesso all’aumentare del valore dell’indicatore di esposizione a rifiuti per la mortalità generale». Non diversa la situazione lungo il litorale vesuviano, sul tratto che va da Castellammare di Stabia a Napoli.

Ugualmente, in altre parti d’Italia, viene rilevata, quando non asserita, la connessione tra la specifica situazione di inquinamento e l’incremento di mortalità o patologie varie.

Balangero, Emarese, Casale Monferrato, Broni, Bari-Fibronit e Biancavilla, ad esempio, sono stati inseriti tra i SIN a causa della contaminazione da amianto. A questi si aggiungono altri sei siti, tra cui Pitelli, Massa Carrara, Priolo e l’Area del litorale vesuviano, dove, oltre all’amianto, sono presenti altri fattori inquinanti. Nell’insieme dei SIN contaminati da amianto, nel periodo 1995-2002, sono stati osservati 416 casi di tumore maligno della pleura in eccesso rispetto alle attese.

Ancora, nei SIN di Gela, Porto Torres, Taranto e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese non è esclusa la connessione tra incrementi di mortalità per tumore polmonare e malattie respiratorie e le emissioni di raffinerie, poli petrolchimici e stabilimenti metallurgici.

Caso poco conosciuto è poi quello dell’area industriale del comune di Tito, Potenza, inserita nel 2001 tra i siti di interesse nazionale per le bonifiche. Su un’area di 25 ettari, si riscontravano avvelenamento da amianto, falde contaminate, vasche contenenti acque reflue. Nello studio del ministero della salute sui luoghi e siti inquinati, si legge che nel comune di Tito «Il Decreto di perimetrazione del SIN elenca la presenza delle seguenti tipologie di impianti: chimico e siderurgico. Nell’area sono presenti attività produttive di diversa dimensione e tipologia, sia in funzione sia dismesse, con impianti chimici, scorie siderurgiche, discariche di rifiuti pericolosi, discariche con amianto a cielo aperto, vasche di fosfogessi. Il sito Arpa Basilicata riferisce attività di monitoraggio ambientale condotte nel 2003 con rilevazione di metalli pesanti (cromo esavalente, piombo, mercurio), benzene e idrocarburi aromatici, composti organici alogenati e altri idrocarburi. Nella sola popolazione maschile è in eccesso la mortalità per patologie dell’apparato respiratorio. Si osserva un eccesso di mortalità per tumori del colon-retto nelle donne».

Se si prendono in considerazione le cause connesse alle esposizioni ambientali in tutti i SIN, si riscontrano 2.439 decessi in eccesso rispetto alle attese per gli uomini e 1.069 per le donne. Come dato a conferma della connessione tra crisi ambientale e aspetti socio-economici è importante citare che  il 60% della popolazione dei SIN appartiene ai due quintili più svantaggiati, documentando così un’iniqua distribuzione dei rischi ambientali connessi all’industrializzazione e allo smaltimento di rifiuti.

In Italia come nel resto d’Europa la presenza dei siti contaminati è rilevante, basti pensare che 250.000 sono i siti da bonificare negli Stati membri della European Environment Agency e migliaia di questi sono localizzati in Italia, 57 quelli definiti di «interesse nazionale per le bonifiche» (Sin) e finiti nel «Programma nazionale di bonifica», sulla base dell’entità della contaminazione ambientale, del rischio sanitario e dell’allarme sociale (DM 471/1999).

La Campania però non solo ha pagato a caro prezzo l’essere stata sacrificata ad un modello di sviluppo sempre più ridotto a mero sfruttamento economico del territorio e fonte di morte più che di benessere, ma, proprio per questo, assurge a simbolo delle comunità in lotta in difesa dei propri luoghi e della vita stessa, i cui atti di ribellione, se si tiene in considerazione la situazione sopra descritta, sarebbe facile considerare legittima difesa.

Nella Terra dei Fuochi, l’area tra Napoli e Caserta devastata dai roghi tossici e dall’interramento di rifiuti industriali, al di là di ogni studio scientifico, la correlazione tra l’esposizione ad un disastro ambientale di proporzioni spaventose e l’aumento degli indici di mortalità e dell’incidenza di patologie gravi è viva percezione delle comunità locali. Dati esperienziali che rimangono coperti da silenzio. Le comunità locali registrano sulla propria pelle quello che le istituzioni non si preoccupano di approfondire e il problema è che fin quando non esisteranno rapporti scientifici che attestino la correlazione tra decessi e disastro ambientale non esisteranno nemmeno prove valide da poter utilizzare in tribunale per chi subisce il biocidio.

Dal rischio latente alle comunità in lotta

Nel contesto territoriale e sociale in cui si determina, il rischio ambientale e sanitario è un elemento sospeso e confinato in un sottotraccia di difficile emersione. Difficoltà connotata storicamente nella coesistenza di lungo periodo tra comunità e fonte del rischio stesso, quest’ultimo manifestandosi solo in fase avanzata di tale processo storico data l’assenza, nella maggior parte dei casi, di eventi eclatanti in grado di imprimere deflagrazioni percettive. Il quotidiano è invece dato in una cornice di apparente normalità in cui si susseguono microeventi sommersi che non inficiano in maniera evidente il vissuto delle comunità; il risultato è una sorta di assuefatta ed inconsapevole convivenza con una fonte conclamata di rischio, una condizione di esposizione silente: negazione del problema, sua attribuzione a stili di vita errati, sovrastima, spesso dettata da una percezione manipolata, delle proprie capacità individuali nel sottrarsi all’esposizione. Alla base della strutturazione endemica del rischio nei suoi tratti generali vi è la pervasività culturale dei valori dell’industrialismo – lavoro e crescita produttiva – e lo scontrarsi della volontà di cura di sé stessi e dei propri cari con la presa di coscienza di una impossibile azione individuale contro fenomeni di grossa portata che genera rifiuto psicologico, secondo fenomeni di dissonanza cognitiva; i fattori di rischio, d’altro canto, sono diluiti nel tempo, territorialmente frammentati e non interferenti sulle pratiche quotidiane e per questo sfuggenti

Così, a Taranto, contro la chiusura dell’impianto siderurgico, le prime proteste hanno visto la comunità scendere in piazza portando in corteo il logo dell’ILVA; in sostanza, agendo la spinta del ricatto occupazionale, il background valoriale portava a sposare il motto “meglio malati che disoccupati”. Tuttavia, il sequestro della fabbrica, in quanto evento deflagrante, ha interrotto il processo storico di esposizione silente e susseguirsi di microeventi poco percepibili, aumentando rapidamente il grado di consapevolezza del rischio e facendo emergere una volontà d’opposizione fondata sulla riscoperta di un senso comunitario incentrato sulla difesa della salute.

Anche la controparte istituzionale e imprenditoriale, in questo caso, muta però i propri comportamenti. La prima tende ed esaltare il rafforzamento delle normative in termini di standard e controlli; l’azienda, dal canto suo, reagisce all’input normativo e alla crescita della sensibilità ecologica presso l’opinione pubblica mutando la propria strategia: comincia ad esempio a ragionare pubblicamente in termini di “responsabilità ambientale e sociale” e di comunicazione ambientale o ammette gli errori commessi pur valorizzando gli interventi riparatori messi in campo. È a questo punto che viene a verifica la strutturazione, la radicalizzazione e il grado di corrispondenza a realtà del recuperato senso di appartenenza comunitaria. Se tali fenomeni sono ormai dispiegati, la strategia aziendale e le rassicurazioni istituzionali non avranno effetti nel breve periodo ma otterranno risultati quantomeno controversi continuando ad alimentare discussioni sull’efficacia degli interventi di contenimento dell’inquinamento, sugli accertamenti della magistratura rispetto alle violazioni delle norme e lo scetticismo diffuso delle comunità. Il caso campano è ancora una volta emblematico: la consapevolezza delle comunità, confortata da dati scientifici, indagini della magistratura e narrazione comunitaria di elementi esperienziali, non ha permesso che le false soluzioni messe in campo durante l’emergenza del 2008 placassero un movimento che il 16 novembre 2013 ha portato in piazza 150.000 persone con un ridottissimo protagonismo dell’associazionismo ambientale (WWF e Legambiente), anch’esso messo sotto osservazione critica. Quel movimento rende palese una nuova impostazione delle lotte ambientali che dal basso ha posto al centro la tutela della salute irrigidendo i parametri della sostenibilità ambientale indissolubilmente legata alla vita stessa delle comunità; ciò rende la coscienza comune difficilmente penetrabile dalle false promesse della green economy (vedi il rifiuto degli impianti di incenerimento proposti anche in Campania come soluzione sostenibile del problema rifiuti ma avversati dalle comunità).

Esistono però luoghi in cui questi processi sono ancora in fase embrionale. Civitavecchia è un’area caratterizzata da elevatissima attività industriale. Tra il 1962 e il 1986, l’Enel ha realizzato qui ben 10 impianti per la produzione di energia elettrica: Fiumaretta, due gruppi alimentati prima a carbone, poi ad olio combustibile; Torre Valdaliga Sud, 4 gruppi termoelettrici; Torre Valdaliga Nord, 4 gruppi termoelettrici, con al servizio una ciminiera di 250 metri di altezza, alimentati ad olio combustibile. Dal 2003 la centrale ENEL di Torre Valdaliga Nord è alimentata a carbone con una capacità totale di 1980 MW installati. Accanto alle centrali termoelettriche ancora attive di Torre Valdaliga, si trovano un porto navale tra i più importanti d’Italia e un cementificio che iniziò a funzionare nel 1986 ed è stato attivo fino a pochi anni fa. Le polveri emesse da quest’ultimo impianto sono connesse alle morti per silicosi, mentre il traffico navale è responsabile dell’emissione in atmosfera di sostanze nocive il cui impatto è evidente se si pensa che una nave da crociera che staziona nel porto, a parità di periodo, emette quanto 12.000 autovetture. A soli 30 km di distanza in linea d’aria dalle due centrali di Torre Valdaliga, dal porto e dal cementificio c’è poi l’impianto di Montalto di Castro, la più grande centrale termoelettrica italiana. Si aggiungono: una boa petrolifera posta al largo del porto; sei depositi costieri per oli minerali; un centro chimico militare per lo smaltimento delle armi della prima guerra mondiale; quattro discariche di rifiuti solidi urbani di cui una in funzione, una esaurita e due in fase di smantellamento; una discarica per rifiuti pericolosi sita in Cava della Legnaia; una discarica per rifiuti speciali in località Poggio Elevato.

Solo per citare alcuni dati, nel 1996 un’analisi dell’Osservatorio Epidemiologico Regionale metteva in evidenza come nel triennio 1990-1992 l’area di Civitavecchia detenesse, nella regione Lazio, il più alto tasso di mortalità per tumore polmonare e occupasse il secondo posto per mortalità dovute a neoplasie. Sintetizzando, il comprensorio di Civitavecchia è al primo posto nel Lazio ed al terzo in Italia per mortalità dovuta a tumori ai polmoni, alla trachea e ai bronchi; è stato riscontrato un eccesso di leucemie e linfomi; si muore il 26% in più rispetto alla media per patologie neoplastiche.

In luoghi come questo è necessario coadiuvare comitati, associazioni e movimenti locali nel lavoro di rafforzamento di quei processi attraverso cui si determina l’uscita degli effetti a lungo termine delle contaminazioni dal periodo della latenza, insistendo sulla percezione da parte delle comunità e sul crescente grado di consapevolezza che la narrazione comunitaria può agire oltre i dati scientifici, in direzione di una mobilitazione che si spinga al di là della semplice denuncia. La ricerca sociale e l’attivismo assumono in quest’ottica un valore strumentale alla rivitalizzazione del territorio, costituendo insieme una ricerca-azione a supporto delle vertenze, finalizzata all’immaginazione di un cambiamento possibile: la sperimentazione di comuni percorsi emozionali, sui quali possa far leva un nuovo agire collettivo.

Come sempre avviene, gli impatti sanitari e ambientali delle attività inquinanti iniziano a manifestarsi in modo percepibile all’opinione pubblica a distanza di anni. C’è, in altri termini, una soglia critica di percepibilità superata la quale gli effetti non sono più soltanto materia per specialisti e strumenti di misura. Questo tipo di percezione è presupposto indispensabile affinché le pratiche di epidemiologia popolare possano svolgere un ruolo contro la carenza o l’occultamento di informazioni ufficiali. Il diffondersi di osservazioni legate alla vita quotidiana, alla rete familiare e amicale costituiscono una sorta di database collettivo in grado, se ben stimolato, di portare alla luce malesseri o patologie più o meno gravi. Ugualmente, emergono nella comunità figure dotate di competenze, professionali o acquistate sul campo, in grado di individuare punti deboli nei dati e nelle argomentazioni ufficiali e di andare alla ricerca di dati alternativi. È bene tener presente che l’epidemiologia popolare non è altro rispetto all’accertabilità scientifica ma si pone piuttosto l’obbiettivo di superare scientificamente l’occultamento di dati importanti, non raccolti, trascurati o male interpretati, utilizzando a tal fine la percezione esperienziale delle comunità come punto di partenza. In tale percezione poi intervengono poi elementi cognitivi riguardanti l’inquadramento sociale del rischio in termini di iniqua distribuzione degli effetti prodotti a carico di persone o gruppi specifici. Il punto non è la negazione dell’approccio scientifico quanto una diversa impostazione sistematica delle problematiche sanitarie rispetto alla complessa individuazione delle connessioni causali tra fonti e conseguenze partendo dalle vicende delle comunità.

Dal punto di vista sociale, emergerà come aspirazione diffusa che i problemi sanitari vengano affrontati a livello collettivo, appunto, come problema sociale, ossia con risposte che si rivolgono alla popolazione in quanto tale, mentre di solito il problema medico riguarda l’individuo e la ristretta cerchia dei suoi cari.

La potenzialità di questi processi è evidente nell’ottica del cambiamento dell’esistente, assume rilievo fondamentale, allora, la sperimentazione di percorsi che siano in grado di supportarli. Strumento di emersione della percezione latente è la narrazione comunitaria: l’interazione tra parole e racconti delle comunità come percorso di rivitalizzazione di un legame sociale vivo nella memoria ma sopito dai fenomeni sopra descritti. Lo scopo è quello di passare dal quotidiano vissuto individuale all’emersione del racconto condiviso dalla comunità, entro cui riscontrare il dato esperienziale degli effetti che l’esposizione ai fattori ambientali ha prodotto sulla storia di ognuno, rimanendo tuttavia per anni assurdamente sommerso, latente.

Spingere la memoria oltre il rischio della nostalgia significa puntare sulle emozioni altre, che essa può restituire in una dimensione di scambio, attraverso un percorso di autocoscienza collettiva che porti a riconoscersi in quanto “comunità degli esposti” all’ingiustizia ambientale. La condivisione è presa di coraggio e spinta alla reazione, perché superamento emozionale della solitudine.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here