Costi sociali. Cosa sono e a cosa servono.

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Costi sociali

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I Costi Sociali

Al fine di offrire un utile strumento di comprensione economica delle “controindicazioni” dell’industrializzazione e dello “sviluppo” liberista prima e neoliberista poi, che nel nostro territorio risultano particolarmente evidenti e allarmanti, proponiamo alla riflessione dei lettori la categoria di analisi economica dei Costi Sociali. Parlando di Costi Sociali non si può prescindere da K. W. Kapp e dalla sua opera “The Social Costs of the Business Enterprise” (1963); seconda edizione riveduta e estesa di “The Social Costs of the Private Enterprise” (1950); questo sia perché tale pubblicazione rappresenta la prima e più estesa analisi dei costi sociali sia perché Kapp fu il loro ideatore e, finché in vita, maggior promotore. Per una definizione dei costi sociali rimandiamo dunque a Kapp:

“il termine “costi sociali” riguarda tutte le perdite (danni), dirette e indirette sostenute (subiti) da terzi o dal pubblico in generale come risultato di attività economiche non regolate. Queste perdite sociali possono prendere la forma di danni alla salute umana; possono trovare la propria espressione nella distruzione o deterioramento di valori di proprietà e nel prematuro esaurimento della ricchezza naturale; possono anche essere evidenziati in un indebolimento di valori meno tangibili.”

Quali sono le fonti dei costi sociali?

“I costi sociali hanno diverse origini. Alcuni hanno chiaramente la loro origine in industrie specifiche e possono essere ricondotti a particolari processi produttivi e pratiche di affari. Altri sono il risultato dell’interazione di un gran numero di fattori che rendono la causa (“process of causation”) complessa e frequentemente frutto di processi cumulativi.”

Non tutti i costi o danni sostenuti dalla società sono però costi sociali, per esserlo devono avere alcune caratteristiche: “Deve essere possibile per le aziende eluderli, devono essere parte del corso delle attività produttive e essere trasferibili a terzi o all’intera comunità.” Quindi i costi sociali non sono semplicemente dei costi che la collettività o alcuni individui devono assumersi (come potrebbero essere, per fare un solo esempio, le spese di ricostruzione dopo un terremoto), ma sono danni causati scientemente dall’attività produttiva industriale, attività finalizzata al guadagno in un sistema capitalistico liberista nel quale si privatizzano e massimizzano gli interessi e si socializzano le perdite:

“In quanto i costi sociali sono il risultato della minimizzazione dei costi interni dell’impresa è possibile considerare l’intero processo come evidenza di redistribuzione di redditi. Nel trasferire parte dei costi di produzione su terzi o sull’intera comunità i produttori sono in grado di appropriarsi di una maggiore fetta del prodotto nazionale (e oggi del capitale internazionale-finanziario) rispetto a quel che avrebbero potuto in caso contrario.”

Da questa prospettiva i costi sociali sono per l’impresa un debito con la collettività non pagato o non pagabile. Non pagabile per due ragioni: la prima è che non tutti i costi sociali sono traducibili in denaro, la seconda è che pagando questo debito, nella maggior parte dei casi, verrebbe meno la convenienza, in altre parole “l’economicità”, della produzione stessa:

“…i costi sociali sono intrinsecamente connessi con le operazioni dell’economia di mercato nel suo insieme, come, per esempio, lo sfruttamento competitivo delle risorse energetiche […]. Non ci sono basi per credere che le esistenti leggi o regolamentazioni create per arginare la problematica dei costi sociali offrano strumenti in grado di garantire che questi costi di produzione siano adeguatamente stimati rispetto alle spese imprenditoriali. Questo perché il sistema delle imprese d’affari si basa proprio su questa economia di costi non pagati, “non pagati” in quanto una parte sostanziale dei costi di produzione rimangono esclusi dal calcolo delle spese di produzione.”

L’attualità dell’analisi di Kapp dimostra e nasce dal fatto che la “questione costi sociali” non è oggi certo risolta ed è anzi peggiorata, visto che è aumentata la portata e l’entità di tali costi (l’esempio più calzante è quello dei mutamenti climatici causati dal surriscaldamento globale), e visto che sono al contrario diminuite, dopo le politiche neoliberiste/thatcheriane e il contestuale smantellamento dello stato sociale, le misure prese dagli stati per risolverli. Si può quindi dire senza timore di essere smentiti che l’economia di mercato non è stata e non è in grado di eliminare o anche solo di misurare oggettivamente i costi sociali. Da cosa deriva questa impossibilità? Ormai dovrebbe essere chiaro che non può esistere una forma di capitalismo senza costi sociali, i costi sociali sono l’altra faccia di un’economia di mercato. Non solo perché i costi sociali fatti ricadere sull’intera comunità sono sostanziali e non certo marginali, ne solamente perché il loro rigetto rappresenta il più tipico e regolare “comportamento” delle imprese. Ma soprattutto perché i costi sociali sono la condizione sine qua non dell’impresa d’affari, infatti è solo evitando di pagare o quantificare tali costi che il sistema di produzione capitalistico è economicamente vantaggioso:

“Ovviamente, se le spese dell’impresa non includono e dunque non rispecchiano importanti perdite sociali esse non solo falliscono nel misurare i costi totali, ma la produzione può essere effettuata a costi totali eccedenti rispetto ai benefici totali. Quello che le aziende minimizzano non sono i costi totali o i costi ordinari ma le spese aziendali che non tengono conto dei costi sociali scaricati su terzi o sull’intera società.”

Si capisce così la strenua ricerca e difesa di una teoria economica dell’equilibrio nello studio di molti economisti mainstream; il tentativo è quello di dimostrare, almeno teoricamente che v’è un principio di compensazione o almeno di redistribuzione nel sistema economico capitalista. Questo al fine di negare la semplice constatazione che un’impresa d’affari ha il dovere di massimizzare i “suoi” costi sociali qualora le sia concesso e qualora ciò costituisca una massimizzazione dei suoi utili.

“Appena si superano le astrazioni tradizionali dell’analisi dei prezzi neoclassica e si iniziano a considerare gli aspetti omessi dei costi sociali non pagati dall’imprenditore diviene evidente che l’utilità sociale nei criteri di investimento privati, e quindi il presunto risultato benefico del processo di redistribuzione delle imprese private, è largamente un’illusione.”

Dopo aver spiegato cosa sono i costi sociali, le categorie nelle quali Kapp ne ha organizzato lo studio sono: i Costi Sociali dell’inquinamento dell’aria; i C.S. dell’inquinamento dell’acqua; i C.S. dell’utilizzo di risorse rinnovabili; i C.S. dell’utilizzo di risorse non rinnovabili; i C.S. dell’indebolimento del fattore umano della produzione; i C.S. dei cambiamenti tecnologici e della disoccupazione; i C.S. della duplicazione e dell’investimento eccessivo di capitale; i C.S. della competizione spietata o mancante, della pianificazione obsoleta e della promozione alla vendita; i C.S. del ritardo scientifico e della mancata pianificazione della localizzazione delle imprese; a queste categorie ci permettiamo di aggiungere i Costi Sociali causati dai mutamenti climatici, costi sociali nati da processi cumulativi e reiterati a livello globale e non previsti nella datata analisi di Kapp. Non è possibile ora approfondire tali categorie, ci si accontenta di averle qui riportate e di sottolinearne l’importanza per una lettura unitaria delle molteplici problematiche presenti sul nostro territorio. Lettura unitaria possibile e da noi auspicata al fine di ridurre e affrontare la complessità delle criticità ambientali e sociali nelle quali siamo innegabilmente sempre più immersi.

Esternalità e Costi Sociali

Si apre ora una breve parentesi riguardante le differenze, spesso sminuite o eliminate nel discorso economico mainstream, tra “Costi Sociali” ed “Esternalità”. Nelle pubblicazioni inerenti i costi sociali infatti è molto facile incontrare come loro sinonimo il termine esternalità. Il significato di questo termine, derivante dalla distinzione Marshalliana tra “economie interne” ed “economie esterne” e dall’analisi dei costi marginali, operata da Marshall nella sua opera più importante e mai conclusa “Principles of economics”, può essere così riassunto:

“L’esternalità è l’effetto che l’attività di una persona o di un’impresa ha sul benessere di un’altra persona o di un’altra impresa e che non si manifesta attraverso una variazione dei prezzi di mercato. L’esternalità negativa è un costo che un individuo o un’impresa impone a terzi a fronte del quale non è previsto alcun risarcimento . L’esternalità positiva è un beneficio che un individuo o un’impresa producono ad altri senza ricevere alcun compenso.”

Fin qui, focalizzando l’attenzione solo sulle esternalità delle aziende e tralasciando quelle tra individui, sembrerebbe che se non intercambiabili, i termini costi sociali e esternalità, possano essere il primo “contenuto” nel secondo. Con altre parole i costi sociali sarebbero le esternalità negative di un’impresa su terzi. Prima di vedere cosa a riguardo pensasse Kapp, vediamo quali errori possa creare questo fraintendimento:

“Causa delle esternalità è l’assenza di un mercato per determinati beni. (Nell’esempio dell’acciaio manca un mercato dell’aria pulita, nell’esempio degli allevatori padani manca un mercato dell’acqua pulita). L’assenza di mercati è causata dalla mancata definizione dei diritti di proprietà (se l’aria o l’acqua pulita fossero proprietà di qualcuno, ci sarebbe un mercato, l’aria o l’acqua avrebbero un prezzo e tale prezzo sarebbe calcolato fra i costi privati.)”

E’ onestamente difficile non liquidare tali asserzioni come semplici assurdità o irrazionalità. E’ però molto più utile cercare di capire quale sia la logica sottostante, in grado di creare tali storture analitiche, non fosse altro per il fatto che questo è quel che viene insegnato nelle università italiane di economia alla voce “cause delle esternalità”. La logica sottostante è quella dell’appiattimento della realtà economica e addirittura dell’intera realtà sull’economia di mercato, e, contestualmente, la concezione della proprietà solo come privata ed individualistica, eliminando dall’analisi, come abbiamo dimostrato, qualsiasi bene comune o proprietà collettiva. Per inciso l’acqua e l’aria hanno un proprietario: la collettività contemporanea e futura. Sarebbe però ingiusto ascrivere a Marshall tali asserzioni, difatti, senza approfondire eccessivamente, basta leggere l’opera suddetta per accorgersi che l’analisi di quello che è stato definito “l’ultimo economista classico” si dimostra molto più attenta alla complessità della realtà economica trattata (dopo di lui sempre più confusa con la crematistica) e molto più cauta nell’astrarre dalle reali condizioni storiche e cause materiali di tale realtà. Sembra di poter affermare che sia avvenuto per l’opera di Marshall quel che è avvenuto per l’opera di Marx “Il Capitale”. Infatti nelle riletture posteriori del Capitale si sono spesso dogmatizzate o cristallizzate quelle posizioni (anche critiche) utili al perpetuarsi del discorso economico mainstream (per fare un solo esempio, la centralità nell’analisi Marxiana dei fattori di produzione), omettendo o fraintendendo le riflessioni Marxiane oggi più attuali e pericolose per tale perpetuarsi (per esempio le sue asserzioni inerenti allo sfruttamento delle risorse naturali). Con un’analogia, l’idea sembra quella di porre un argomento scomodo come quello dei costi sociali all’esterno del discorso economico ufficiale proprio come un’azienda esternalizza alcuni costi. Kapp spiega perfettamente quale dinamica “colpisca” un concetto nuovo e critico per l’establishment:

“Una reazione è di ignorare chi critica il vecchio sapere attraverso una cospirazione del silenzio da parte di tutti quelli che hanno “investito” nella dottrina ufficiale e dei quali si può dire che hanno un “legittimo interesse” in essa, per usare un termine caro a Veblen. […] Tuttavia, quando l’accumulazione di nuove osservazioni empiriche e dati che contraddicono il convenzionale corpo di conoscenze non possono più essere taciuti, la rilevanza di tali prove verrà probabilmente criticata. Dopo tutto, tali osservazioni vengono dall’esterno del “regno del discorso ufficiale”; e possono essere dette “non-economiche” o “metaeconomiche”. I critici sono considerati outsiders – sociologi o studiosi di scienze politiche per esempio – che non hanno sufficientemente familiarità con i criteri ritenuti ammissibili e rilevanti coi quali confrontare le conclusioni derivanti dal modello chiuso. Un passaggio successivo è quello di affinare vecchi concetti e assumerli al fine di farli sopravvivere alle evidenze più sconvolgenti per la struttura di sapere tradizionale.”

Questo è quello che è successo nel campo dell’economia mainstream alla tematica dei costi sociali, Kapp ci spiega come ciò sia avvenuto:

“In altre parole, concetti più vecchi e nuovi fenomeni sono reinterpretati in un certo modo per convincere la comunità di studiosi che non c’è necessità di un nuovo approccio e che infatti i nuovi dati e fatti possono essere e anzi sono sempre stati presi in considerazione. […] I problemi ambientali sono stati oggi forzatamente inseriti nel box concettuale delle esternalità per primo da Alfred Marshall. […] E’ mia opinione che questo concetto non fu creato per, e non è adeguato ad affrontare, l’intera gamma e il carattere pervasivo delle ripercussioni ambientali e sociali messe in moto dalle attività economiche dei produttori o dalle merci prodotte e vendute da loro ai consumatori. Sono d’accordo inoltre con chi ha criticato l’uso del concetto delle esternalità come vuoto nonché incompatibile con la struttura logica della teoria dell’equilibrio statico”.

E’ ormai chiaro che le esternalità non sono i costi sociali e anzi queste possono quasi essere ritenute due categorie concettuali “antagoniste”. Il terreno di scontro è certamente la definizione di cosa sia l’economia. Se decidiamo di ridurre il vasto campo dell’economia umana (definibile, con Polanyi, come l’interagire umano col proprio ambiente naturale e sociale al fine di ottenere il proprio sostentamento e benessere), alla sola economia di mercato, ogni aspetto della realtà economica escluso dal mercato, che non è quindi quantificabile o difficilmente quantificabile in denaro (crematistica), sarà ritenuto non-economico, esterno e quindi di fatto, evitato. Si arriva così facilmente ad un sistema teorico chiuso e tautologico la cui assurda, eppur logica, conseguenza è la “lezione” di Economia prima citata. Se invece decidiamo di affrontare l’economia in tutta la sua complessità allora risulterà chiaro come i costi sociali e soprattutto la loro elusione rappresentino la base stessa del sistema di produzione capitalista e inoltre che, solo al prezzo di grandi fatiche, non certo solamente teoriche, si è riusciti storicamente ad escluderli dalle analisi economiche, storiche e politiche.

Stakeholder e Costholder

Dopo aver spiegato cosa siano i costi sociali, in cosa differiscano dalle esternalità e perché non si debba confonderli con esse, vediamo in che modo possano essere uno strumento in grado di creare alternative nella gestione e nello sfruttamento del territorio a partire dai processi di governance nel rapporto istituzioni-cittadini. A tal fine proponiamo una nuova categoria economica, che ha già trovato spazio in alcuni nostri studi, e che risulta chiaramente mutuata da quella di stakeholder (portatore di interessi); quella di costholder (portatore di costi). La definizione è semplice: i costholders sono individui, o gruppi di persone (anche l’intera umanità) “colpiti” dai costi sociali di un dato processo economico o produttivo e quindi interessati ad esso non in vista di un utile (stakeholder) ma al fine di evitare una perdita o danno. L’intento è quello di mettere in atto una “rivoluzione copernicana” che sposti l’attenzione dagli utili ai danni e dagli interessi ai costi al fine di introdurre a pieno diritto i portatori di costi nel processo decisionale riguardante le attività produttive e/o economiche che causano tali costi. Per un esempio dell’utilizzo di questa categoria analitica in campo teorico-politico:

“…i comitati studiati cercano di sporgere dal modello-stakeholder, ponendosi come portatori di costi, quelli che si potrebbero chiamare “cost-holder”. In questo senso la sporgenza si pone innanzitutto in termini di incommensurabilità. All’interno di un paradigma neoliberista in cui tutto è mercificabile, e quindi in qualche modo quantificabile monetariamente, i comitati si pongono come i portatori di valori incommensurabili quali la qualità della propria vita, la salvaguardia della “terra natia” etc. Questi valori sono scarsamente negoziabili e in ciò si evidenzia la principale ragione dell’intrattabilità (Schon e Rein 1994) di tali controversie. D’altra parte tuttavia i comitati si fanno portatori di costi traducibili anche “nella lingua” del capitalismo neoliberista, quali le economie locali compromesse (ad esempio quelle agricole), i costi derivati dai danni alla salute e quelli di opere di ripristino e bonifica (pagate con soldi pubblici per “riparare” i danni prodotti per il profitto di privati); […] Molte pratiche di claims about evidence e in termini di recognition si muovono proprio in questo senso: far vedere, e vedere riconosciuti, i costi (commensurabili e non) di cui un contesto socio-territoriale si è fatto carico. (Lonati, 2014)

Per tradurre però questo ribaltamento di prospettiva, dalla teoria alla pratica, spetta proprio ai portatori di tali costi sopperire alle limitate analisi degli “economisti di mercato”, prendere atto dell’esistenza dei costi sociali e mobilitarsi al fine di impedire che questi costi gli siano addebitati. In che modo possa avvenire questo è ormai esperienza comune dopo le “battaglie” ambientali e non, combattute da comitati, organizzazioni politiche, associazioni e singoli cittadini, non raramente vinte in Italia e nel mondo.

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