Le aree fragili come laboratorio per l’alternativa

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aree fragili

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Riproponiamo un interessante articolo pubblicato un paio di anni fa sulla rivista di Ecologia Politica. Il testo offre delle interessanti chiavi di lettura rispetto alle possibilità che aree, considerate come marginali dalle teorie economiche dominanti, possono avere oggi nello sperimentare nuove pratiche di uso del territorio e gestione sostenibile delle sue risorse. Queste aree riscoprono, così, la propria fragilità come base progettuale per sovvertire il modello neoliberista dominante e tracciare la via per sperimentare nuove alternative, basate innanzitutto su forme ridefinite di democrazia diretta.

Inizio cercando di chiarire l’aggettivo fragile. In molti mi chiedono che cosa siano queste aree fragili, e non a torto perché fino ad oggi, i territori che restavano al di fuori dei grandi processi di modernizzazione e di sviluppo venivano letti come marginali o sottosviluppati.

Marginali per i teorici della modernizzazione (studiosi di stampo liberal-liberista), luoghi arretrati dal punto di vista culturale, ancora legati a tradizioni di stampo comunitario, territori ingabbiati da una fitta rete di relazioni sociali che non consente di liberare la creatività individuale  imprenditoriale.

Sottosviluppati, invece, per i teorici della dipendenza (studiosi di scuola marxista), ovvero territori funzionali allo sviluppo delle aree più forti, bacino di forza lavoro  a basso costo e di risorse naturali valorizzabili nei processi industriali, resi sottosviluppati a causa di una subalternità economica e strutturale e frutto di una divisione spaziale del lavoro.

Ogni aggettivo utilizzato per definire le aree che sono rimaste al di fuori dai grandi assi dello sviluppo ha in sé una doppia funzione, una portata seppur parziale di analisi e descrizione e una carica normativa, ovvero a seconda dell’aggettivo che scelgo per descrivere una situazione, detto soluzioni alternative alla problematica che sollevo.

Per chi considerava marginali questi territori, era necessario portare la modernità, scardinare i legami sociali, le tradizioni, sia nelle pratiche sociali che nelle modalità di organizzare le produzioni e i consumi. Fare una iniezioni potente di mercato per dare uno scossone e provocare un mutamento negli stili di vita, così da incrementare i consumi e creare impresa. Per chi definiva sottosviluppate queste aree, invece, l’idea di fondo era quella di trasformare il sistema economico generale per riequilibrare i rapporti tra territori, mettendo nelle mani di un soggetto collettivo esterno a queste aree (la classe operaia) il compito salvifico.

Utilizzando l’aggettivo fragile si vuole uscire da queste logiche che si ritengono ormai incapaci o di leggere i fenomeni e di dettare in positivo delle priorità o di azzeccare il bersaglio nella volontà di trasformare il modello dominante. Il termine fragile ha una sua ambivalenza. Ha in sé gli elementi di difficoltà che esistono in questi territori, ma contiene anche qualche virtù non da poco.

Gli elementi di difficoltà sono quelli che conosciamo tutti: popolazione anziana, continuo lento decrescere del numero di abitanti effettivi, problemi legati al governo del territorio, vista la difficoltà di presidiare aree amministrative spesso molto vaste, il rischio di quello che Alberto Magnaghi chiama “localismo vandalico”, ovvero il tentativo disperato degli amministratori locali che -inseguendo ancora oggi una logica di modernizzazione – tentano di dare scosse all’economia locale senza rendersi conto di produrre soltanto uno stonato e disperato canto del cigno.

E poi ci sono le virtù della fragilità: patrimoni naturali incontaminati, facilità nel dare vita a processi economici integrati nell’ambiente, chiudendo i cicli ecologici, tempi più dilatati, perché qui non è pressante la corsa affannata delle zone industriali che debbono restare competitive sui mercati globali e perciò è possibile progettare lo sviluppo locale sul lungo periodo.

L’idea della fragilità vuole anche contrastare un lascito sviluppista che era proprio delle tradizioni liberali e marxiste novecentesche: l’idea che continua a serpeggiare per cui i territori fragili possano e debbano provare ad essere competitivi nel mercato globale. Questa è per me un’idea balzana e distruttiva. È l’idea delle cattedrali nel deserto, per cui se un settore anche soltanto per un brevissimo frangente storico ha dei margini di competitività sul mercato, si punta su quello e quando il mercato, alla sua prima turbolenza, ti dice che per te non c’è più spazio, chiudi la baracca e devi ricominciare tutto dall’inizio, lasciandoti alle spalle, spesso, crisi ambientali, disagio sociale, senso di impotenza di fronte alle dinamiche sovralocali.

All’idea di competitività dei territori fragili voglio contrapporre quella di robustezza dei territori fragili. Per le aree fragili non abbiamo bisogno di economie competitive, ma di economie robuste, per far sì che si salvaguardino le virtù della fragilità e si cancellino pian piano le difficoltà. Non il contrario, al quale ci condanna l’ideologia della competitività, che distrugge le virtù e non fa nulla per le difficoltà.

Creare economie robuste significa iniziare a tessere un tessuto economico locale che abbia grandi margini di autonomia rispetto ai mercati esterni, significa individuare modi differenti di organizzare i sistemi produttivi ed i modelli di consumo a livello locale. Ma attenzione, non sto dicendo che ciò si deve e  si può tradurre in una chiusura dei sistemi locali: è sufficiente la legge termodinamica in fisica a spiegarci come i sistemi chiusi periscano. Sto dicendo che si deve tradurre in un ridimensionamento della dipendenza dell’economia locale dall’esterno, ancorando i sistemi produttivi locali alle risorse territoriali.

Per fare questo è necessario che le istituzioni locali, i municipi, gli attori economici, le istanze dal basso elaborino una visione, una narrazione del locale, un progetto locale per i territori fragili. Bisogna individuare delle questioni dalle quali partire per costruire questa narrazione e per dare vita a tessuti economici robusti.

Io partirei dalle questioni più critiche del ventunesimo secolo: DEMOCRAZIA, CIBO ed ENERGIA. Sono molti gli analisti che ritengono che in un futuro prossimo dovremo difendere la democrazia con i denti, anche laddove è già una conquista consolidata. Penso a Colin Crouch, che descrive gli stati occidentali come post-democrazie espropriate di sostanza da poteri pervasivi ed ubiquitari, che si sviluppano a rete sull’intero pianeta e danno vita a flussi incontrollabili da parte dei  poteri nazionali. Energia e cibo diverranno la questione del secolo per effetto dell’inurbamento di massa che sta avvenendo nel mondo, e per il mutamento globale dei modi di produrre e di consumare.

E noi, sui nostri territori fragili, qualcosa sul cibo e sull’energia possiamo affermare, partendo da un’idea di sovranità locale energetica ed alimentare, partendo dall’idea che per creare un’economia robusta, capace di reggere gli scossoni dei mercati che su questi settori impazziranno sempre più, dobbiamo costruire dei margini di autonomia locale sulla produzione di alimenti e sulla produzione di energia.

Per questo è necessario intervenire non solo sui modi di produrre, ma anche sui modi di consumare, iniziando a praticare le filiere corte del cibo e dell’energia. E per filiere corte non intendo soltanto rapporti diretti e pochi passaggi di filiera, ma soprattutto creare un mercato locale, a kilometri zero, del cibo e dell’energia.

L’idea di sovranità locale implica anche una ridefinizione sul territorio della democrazia e della rappresentanza democratica. Non è pensabile il progetto locale se esso non si forma e si consolida tramite processi partecipati e formule di democrazia nuove, come da molte parti si stanno sperimentando: le giurie dei cittadini, le arene deliberative, l’educazione alla partecipazione ed alla cittadinanza attiva, i forum permanenti, quello che gli inglesi chiamano empowerment delle comunità locali.

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